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Yad Vashem: la memoria israeliana della Shoah

di Francesco Maria Feltri (Pro Forma Storia e Memoria)

YOSSL RAKOVER SI RIVOLGE A DIO
Il racconto di Zvi Kolitz Yossl Rakover si rivolge a Dio è ambientato a Varsavia, il 28 aprile 1943. La voce narrante è quella di un combattente del ghetto, ormai privo di munizioni e armato solo di un paio di bottiglie piene di benzina. In questa situazione disperata, il suo pensiero e la sua preghiera si rivolgono a Dio, che sembra aver abbandonato Israele. Eppure il rotagonista, Yossl Rakover, proclama che non cesserà di essere ebreo e non abbandonerà la fede dei suoi Padri. In virtù della sua straordinaria potenza espressiva, il racconto fu a lungo
considerato come una testimonianza autentica, effettivamente scritta durante l’insurrezione del ghetto di Varsavia; in realtà, fu composto nel 1946. Non vi è popolo più eletto di uno sempre colpito.

“Anche se non credessi che un tempo Dio ci abbia destinati a diventare popolo eletto, crederei che ci abbiamo resi eletti le nostre sciagure. Credo nel Dio di Israele, anche se ha fatto di tutto perché non credessi in lui. Credo nelle sue leggi, anche se non posso giustificare i suoi atti. Il mio rapporto con lui non è più quello di uno schiavo verso il suo padrone, ma di un discepolo verso il suo maestro. Chino la testa dinanzi alla sua grandezza, ma non bacerò la verga con cui mi percuote. Io lo amo, ma amo di più la sua Legge, e continuerei a osservarla anche se perdessi la mia fiducia in lui. Dio significa religione, ma la sua Legge rappresenta un modello di vita, e quanto più moriamo in nome di quel modello di vita, tanto più esso diventa immortale. Perciò concedimi, Dio, prima di morire, ora che in me non vi è traccia di paura e la mia condizione è di assoluta calma interiore e sicurezza, di chiederTi ragione, per l’ultima volta nella vita. Tu dici che abbiamo peccato? Di certo è così. Che perciò veniamo puniti? Posso capire anche questo. Voglio però sapere da Te: Esiste al mondo una colpa che meriti un castigo come quello che ci è stato inflitto? Tu dici che ripagherai i nostri nemici con la stessa moneta? Sono convinto che li ripagherai, e senza pietà, anche di questo non dubito. Voglio però sapere da Te: Esiste al mondo una punizione che possa espiare il crimine commesso contro di noi? Tu dici che ora non si tratta di colpa e punizione, ma che hai nascosto il Tuo volto, abbandonando gli uomini ai loro istinti? Ti voglio chiedere, Dio, e questa domanda brucia dentro di me come un fuoco divorante: che cosa ancora, sì, che cosa ancora deve accadere perché Tu mostri nuovamente il Tuo volto al mondo? […] Tra un’ora al massimo sarò con la mia famiglia, e con milioni di altri uccisi del mio popolo, in quel mondo migliore in cui non vi sono più dubbi e Dio è l’unico pietoso sovrano. Muoio tranquillo, ma non appagato, colpito, ma non asservito, amareggiato, ma non deluso, credente, ma non supplice, colmo d’amore per Dio, ma senza rispondergli ciecamente <<amen>>. Io l’ho seguito anche quando mi ha allontanato da sé; ho fatto la sua volontà persino quando mi ha colpito per questo; l’ho amato, e ho continuato ad amarlo anche quando mi ha umiliato oltre ogni dire, quando mi ha torturato a morte, quando mi ha esposto alla vergogna e allo scherno. Il mio rebbe [= maestro – n.d.r.] soleva raccontarmi la storia di un ebreo che era sfuggito con la moglie e il figlio all’Inquisizione spagnola, e con una piccola barca, sul mare in tempesta, aveva raggiunto un’isoletta rocciosa. Cadde un fulmine e uccise sua moglie. Venne una tempesta e gettò suo figlio in mare. Solo e derelitto, nudo e scalzo, stremato dalle tempeste e atterrito dai tuoni e dai fulmini, con i capelli arruffati e le mani tese a Dio, l’ebreo proseguì il suo cammino sull’isola rocciosa e deserta, e si rivolse al suo Creatore con queste parole:
<<Dio d’Israele, sono fuggito qui per poterTi servire indisturbato, per obbedire ai Tuoi comandamenti e santificare il Tuo nome. Tu però fai di tutto perché io non creda in Te. Ma se con queste prove pensi di riuscire ad allontanarmi dalla giusta via, Ti avverto, Dio mio e dei miei padri, che non Ti servirà a nulla. Mi puoi offendere, mi puoi colpire, mi puoi togliere ciò che di più prezioso e caro posseggo al mondo, mi puoi torturare a morte, io crederò sempre in Te. Sempre Ti amerò, sempre, sfidando la Tua stessa volontà!>>.
E queste sono anche le mie ultime parole per Te, mio Dio colmo d’ira: non Ti servirà a nulla! Hai fatto di tutto perché non avessi più fiducia in Te, perché non credessi più in Te, io invece muoio così come sono vissuto, pervaso di un’incrollabile fede in Te. Sia lodato in eterno il Dio dei morti, il Dio della vendetta, della verità e della giustizia, che presto mostrerà di nuovo il suo volto al mondo, e ne scuoterà le fondamenta con la sua voce onnipotente. Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno. Nella tua mano, Signore, affido il mio spirito”.
(Z. Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio, Milano, Adelphi, 1997, pp. 23-24 e 27-29. Traduzione di A. L. Callow)

I PRIMI RASTRELLAMENTI NEL GHETTO DI VARSAVIA
Nel 1952, la rivista trimestrale dell’Istituto Storico Ebraico di Varsavia pubblicò un manoscritto che l’intellettuale ebreo Giosuè Perle riuscì a nascondere prima di essere deportato. Intitolato La distruzione di Varsavia, il diario di Perle è una dettagliata cronaca delle deportazioni dal ghetto di Varsavia, iniziate il 22 luglio 1942. Il testo, al momento della sua pubblicazione, fece molto discutere a causa del durissimo giudizio che l’autore esprimeva sul Consiglio ebraico (Judenrat) e sui poliziotti ebrei del ghetto, che in un primo tempo (nell’illusione di salvare se stessi e le proprie famiglie) eseguirono diligentemente gli ordini dei nazisti. Oggi, 31 agosto, comincio a scrivere queste righe bagnate di sangue e di lacrime. Sono passati ormai quaranta giorni dal momento in cui i cani sanguinari hitleriani, insieme agli infami aguzzini della cosiddetta polizia ebraica, hanno cominciato a sterminare con feroce crudeltà la popolazione ebraica del ghetto di Varsavia. Circondato da tutte le parti da mura desolate, fatte costruire dal Judenrat [= Consiglio ebraico – n.d.r.] a proprie spese, il ghetto di Varsavia contava al 22 luglio 1942 circa trecentocinquantamila anime La gente si ammucchiava nelle strade strette, sporche, buie. Il tifo che ha fatto strage per tutto l’inverno, falciava le vittime, la fame mieteva da quattro a cinquemila vittime al mese. I cani hitleriani sparavano e uccidevano gente ogni giorno, tuttavia gli ebrei vivevano, in un modo o nell’altro (una piccola percentuale stava benissimo) e non perdevano la speranza di riuscire ad avere infine ragione del cane feroce, dell’assassino. Venne però una giornata nera, la più nera forse di tutta la storia ebraica, la giornata del 22 luglio 1942. […] Apparvero sui muri dei manifesti con un comunicato del Judenrat che annunciava l’ordine delle autorità tedesche: “tutti gli ebrei devono essere trasferiti da Varsavia (in termine tedesco: uebergesiedelt) nelle regioni dell’Est. A Varsavia potranno rimanere: i poliziotti ebrei (con mogli e figli), gli impiegati del Judenrat, gli impiegati dell’Ufficio Approvvigionamento, gli impiegati del Comitato Ebraico di Soccorso ed anche gli ebrei idonei al lavoro. Tutti costoro saranno alloggiati in apposite caserme, dove saranno addestrati ad una vita disciplinata e lavoreranno per l’esercito tedesco. Il trasferimento – diceva ancora il comunicato – comincia oggi stesso, alle ore 11. Chi si nasconderà, o farà resistenza, sarà fucilato immediatamente”.

“La trista operazione cominciò ad attuarsi. I poliziotti ebrei, quei duemila cani dei quali avrò più tardi occasione di parlare, si misero subito al lavoro. Le prime vittime furono gli ebrei a suo tempo deportati dalla Germania, che già erano stati trasferiti decine di volte da una località all’altra; alla fine li avevano gettati nel ghetto di Varsavia, stranieri senza tetto, impacciati. Bisogna dire, sia pure a malincuore, che non erano persone troppo simpatiche. Erano tedeschi, rinnegavano gli Ostjuden [= gli ebrei dell’Europa orientale, più legati alla tradizione e più distanti dalla moderna cultura europea – n.d.r.], li insultavano, e quando lavoravano nelle aziende tedesche e avevano un po’ di voce in capitolo, maltrattavano gli ebrei locali. Il cane feroce, Hitler, possiede una forza così diabolica che riesce ad aizzare il fratello contro il fratello, il figlio contro il padre, perché lottino a somiglianza dei lupi e siano portati a dilaniarsi a vicenda. Gli ebrei tedeschi accolsero con calma il loro destino. I poliziotti ebrei li condussero all’Umschlagplatz [= posto di smistamento, il luogo in cui gli ebrei erano caricati sui vagoni – n.d.r.], o più propriamente alla piazza delle sofferenze e della morte che divenne poi il simbolo della Geenna: nel pronunciare questa parola si sente il sangue gelarsi nelle vene e il cuore fermarsi. Una volta sistemati gli ebrei tedeschi, i poliziotti si accinsero al lavoro nei cosiddetti punti, dove si trovavano ammassate decine di migliaia di disgraziati, deportati tempo  addietro dalle loro città d’origine per farli morire di fame e di tifo sotto la protezione del Judenrat. Nel ghetto di Varsavia un punto significava una topaia desolata, sporca, trascurata, dove la gente ancora sana dormiva sullo stesso giaciglio dei malati di tifo, dove i vivi giacevano insieme ai morti e dove si invocava cento volte al giorno la morte. Il Judenrat di Varsavia che pompava denaro dai vivi e dai morti, l’Ufficio Approvvigionamento, i cui direttori ammassavano oro, si curavano tanto dei punti, che quelli che vi abitavano cadevano come le mosche. Quando si entrava in un punto non si vedevano esseri viventi, ma cadaveri ambulanti, fantasmi , ossa e pelle che marcivano. Questi spettri, per la verità, non si interessavano molto del loro destino; erano comunque condannati, che cosa importava il luogo dove avrebbero trovato la morte? I cani hitleriani fucilarono questi disgraziati uno ad uno. Tuttavia anche fra loro c’era qualcuno che non voleva lasciarsi prendere; si difendevano, gridavano, si nascondevano. Allora i poliziotti del ghetto, per la maggior parte ebrei convertiti, avvocatucci senza fortuna, figli di ricchi commercianti, gioventù dorata dell’anteguerra, dimostravano di che cosa erano capaci. Si mettevano a picchiare ferocemente quei disgraziati con manganelli e bastoni d’ogni genere. Strappavano i bimbi alle madri, i mariti alle mogli, i padri ai figli. Le grida di disperazione si alzavano fino al cielo, ma i nostri poliziotti, sia maledetto il loro nome, avevano cuori di pietra. Non smettevano di picchiare. Caricavano la gente sui carri e la portavano alla famosa Umschlagplatz. Su carri simili i condannati a morte vengono portati al patibolo. In quella notte fra il 22 e il 23 di luglio 1942, il presidente del Judenrat, ingegner Czerniakov, si uccise dopo una visita dei cani hitleriani, che gli avevano chiesto di consegnare all’indomani diecimila ebrei. […] Era un uomo mediocre e povero di spirito e il destino beffardo lo aveva messo a capo della più grande comunità ebraica di tutta l’Europa, in un periodo che non aveva precedenti nella storia degli ebrei. Questo ingegnere non era all’altezza di un compito così grande, e nello stesso tempo così tragico, che superava i limiti delle sue forze, e non si rendeva conto della responsabilità che si era assunto. Dirigeva la comunità come un piccolo amministratore dalle vedute ristrettissime e, diciamolo pure, come un grande codardo. Faceva tutto quello che i banditi hitleriani gli chiedevano; non osava mai alzare la voce, non osava mai muovere un’obiezione, sia pur minima. Pensava forse, che così facendo, sarebbe riuscito a salvare il salvabile. E invece non salvò niente, né se stesso, né gli altri membri del Judenrat, che strisciavano carponi davanti ai banditi tedeschi”.
(A.Nirenstajn, Ricorda cosa ti ha fatto Amalek, Torino, Einaudi, 1958, pp. 58-66)
LE DEPORTAZIONI DA VARSAVIA, NEL RESOCONTO DI MAREK EDELMAN
Marek Edelmann fu uno dei capi della rivolta del ghetto di Varsavia nell’aprile 1943. Riuscì a salvarsi fuggendo attraverso la rete fognaria. Nel 1945, pubblicò un breve resoconto delle deportazioni e dell’insurrezione, intitolato Il ghetto lotta. In un primo tempo, l’eroismo del ghetto fu il solo episodio della Shoah ricordato senza imbarazzo in Israele.

“Al fine di verificare concretamente e senza contraddizioni possibili la sorte dei trasporti umani che lasciano il ghetto, Zygmunt Frydrych è inviato sulle loro tracce, nel settore ariano [la zona di Varsavia abitata dai tedeschi e dai polacchi – n.d.r.]. Brevissimo, il suo viaggio verso l’Est dura appena tre giorni. Appena varcato il muro [del ghetto – n.d.r.], Zygmunt entra in contatto con un ferroviere della stazione di Gdansk, che lavora sulla linea Varsavia-Malkinia. Parte con lui nella stessa direzione dei trasporti e discende a Sokolow dove la linea si divide, una diramazione conduce a Treblinka. Viene sapere da alcuni ferrovieri che tutti i giorni un treno-merci, stipato di gente proveniente da Varsavia, imbocca questo raccordo e ritorna vuoto. Nessun convoglio alimentare passa di là e la stazione di Treblinka è interdetta alla popolazione civile. Prove tangibili che le persone che vi sono condotte vengono assassinate. L’indomani, al mercato di Sokolow, Zygmunt incontra due ebrei completamente nudi, scappati da Treblinka. Essi gli descrivono in dettaglio il massacro. Da quel momento, non si può più parlare di semplice supposizione poiché i fatti sono confermati da testimoni oculari (uno degli scampati è il nostro compagno Wallach).  Al ritorno di Zygmunt viene pubblicato un secondo numero di Ojf der Wach [= In Guardia, giornale clandestino che esortava a resistere alle deportazioni – n.d.r.] con una descrizione esatta di Treblinka. Ma gli ebrei si ostinano, persino ora, a non credervi. Chiudono gli occhi, si tappano le orecchie e si difendono <<unghie e denti>> contro l’atroce verità. I tedeschi, intanto, tentano ogni mezzo e inventano un nuovo metodo. Ad ogni volontario che si iscrive per il viaggio, promettono e distribuiscono tre chili di pane e un chilo di marmellata. L’offerta è più che sufficiente. La propaganda e la fame fanno il resto. La prima possiede un argomento imbattibile contro le favole sulle camere a gas: <<Perché sprecherebbero del pane se intendono massacrarci>>. La fame, ancora più potente, annega tutto nell’immagine di queste tre pagnotte, dorate e croccanti. Il cammino è breve dalle case all’ Umschlagplatz. Abbiamo l’acquolina alla bocca, gli occhi dimenticano di vedere ciò che vi è in fondo  alla strada. L’odore famigliare e gradevole inebria il pensiero e gli impedisce di comprendere al di là delle apparenze e di vedere le cose di solito ovvie. Le persone vanno a centinaia all’Umschlagplatz, fanno vari giorni di fila prima di partire. Ci sono talmente tanti volontari per avere i tre chili di pane che i convogli partono ora due volte al giorno, caricando dodicimila persone, e rifiutando molta gente. […] A metà circa del mese di agosto, quando restano ormai solo centoventimila persone nel ghetto, abbiamo l’impressione che la prima tappa della retata sia terminata. L’Umsiedlungsstab [= lo Stato Maggiore locale della deportazione, il gruppo di ufficiali che dirigeva le operazioni – n.d.r.] lascia Varsavia senza lasciare istruzioni. Ma, questa volta ancora, le speranze sono vane. Scopriamo rapidamente che i tedeschi hanno fatto solo una pausa per liquidare nel frattempo Otwock, Falenica e Miedzeszyn. L’intera equipe e tutti i ragazzi del sanatorio Medem vengono
deportati. Roza Eichner muore nel martirio. Dopo questa pausa, la razzia riprende ancor più intensamente. Per noi [= i membri dell’organizzazione di resistenza, che stava progettando la rivolta – n.d.r.] gli accerchiamenti sono sempre più pericolosi perché la popolazione è sempre meno numerosa, su un territorio sempre più ridotto. Per i tedeschi, sono sempre più complicati, perché la gente ha imparato a nascondersi. Si obbliga allora ogni poliziotto ebreo a fornire sette teste al giorno all’Umschlagplatz. I tedeschi giocano sul velluto. Nessuno fino a quel momento ha mai messo così tanto ardore come la polizia ebraica in questa razzia. Mai nessuno è stato così inflessibile verso la sua preda come questo ebreo che arresta un altro ebreo. Per avere le loro sette teste i poliziotti ebrei arrivano persino ad arrestare i medici in camice bianco (la blusa si rivenderà a peso d’oro sull’Umschlagplatz), le madri con un bimbo tra le braccia e i bambini smarriti in cerca della loro casa”. Sì, la polizia ebraica scrive da sé la sua storia. […] Il 12 settembre, la razzia è ufficialmente terminata. Nominalmente restano 33 000 ebrei che lavorano nelle fabbriche e nelle imprese tedesche, compresi i 3000 impiegati del Consiglio Ebraico. In effetti, se si contano quelli che sono riusciti a nascondersi nelle cantine, ne restano circa 60 000. Tutti sono acquartierati presso i luoghi di lavoro. Di nuovo muri tramezzano il ghetto. Tra i settori, si estendono terre di nessuno, deserti ossessionati dallo sbattere delle finestre aperte nel silenzio mortale della strada e dall’odore dolciastro dei cadaveri all’aria aperta”.
(M. Edelmann – H. Krall, Il ghetto di Varsavia. Memoria e storia dell’insurrezione, Roma, Città Nuova, pp. 50-58. Traduzione di M. Meghnagi)

L’ISTANZA DELLA PRECISIONE TERMINOLOGICA
Il volume Il secolo dei campi, di Joël Kotek e Pierre Rigoulot si sforza di analizzare e comparare i diversi sistemi concentrazionari emersi nel corso del XX secolo. Giustamente, però, i due storici precisano che il termine campo di concentramento è spesso usato in modo improprio, onnicomprensivo. Sia pur faticosamente, la storiografia più recente si sforza di introdurre una precisione ed un rigore, nell’uso dei termini tecnici, che a lungo sono mancati, precludendo un’autentica comprensione della dinamica della Shoah. Belzec, Chelmno, Sobibor e Treblinka rientrano nell’universo concentrazionario? Per descriverli o studiarli, si può ricorrere allo stesso vocabolario usato per Dachau o Mauthausen? È sufficiente, per distinguerli dai campi di concentramento classici ed evidenziarne la terribile singolarità, attribuire loro la semplice definizione di campi di sterminio o campi della morte? Certamente no. Dachau e Treblinka sono infatti agli antipodi e non possono essere studiati da un unico punto di vista. Sono così irriducibili l’uno all’altro che la loro realtà non può essere colta servendosi di un repertorio
semantico comune. A Dachau si isolano dal corpo sociale, per un periodo più o meno lungo, persone considerate pericolose per la collettività, ma comunque reintegrabili. A Treblinka sono gassati seduta stante uomini, donne e bambini ontologicamente irrecuperabili, un’umanità inferiore che, dal punto di vista dei nazisti, non è altro che un intralcio al buon funzionamento del mondo. Queste diverse funzioni, da una parte isolamento in quarantena, dall’altra condanna a morte immediata, obbligano, a nostro modo di vedere, a operare una netta distinzione tra questi due luoghi-tipo. A funzioni diverse corrispondono infatti concetti e termini diversi. Non si può fare a meno di constatare che, dalla caduta del nazismo, è invalso l’uso di riunire sotto un’unica etichetta, campo di concentramento, luoghi in cui i detenuti sono sia mantenuti in vita a qualunque costo, nella speranza di poterli reintegrare nella comunità nazionale, sia uccisi lentamente, affamati e distrutti da un carico di lavoro estenuante, sia sterminati non appena scesi dai vagoni per il bestiame. È stato il processo di Norimberga il principale responsabile della diffusione di questo uso improprio del concetto onnicomprensivo di campo di concentramento – visto come un insieme omogeneo e generico – che ha consacrato le atroci immagini delle carneficine di Bergen-Belsen al momento della sua liberazione come prova dello sterminio degli ebrei da parte dei tedeschi. La scoperta di Bergen-Belsen, scrive Walter Laqueur, <<scatenò un’ondata di ira violenta, anche se, ironicamente, non era affatto un campo di sterminio, e neanche un campo di concentramento, ma un Krankenlager, un campo per ammalati, sebbene per ammissione generale, l’unica cura offerta ai ricoverati fosse
la morte>>. A causa di questa visione parziale, molto in auge tra il grande pubblico e persino tra gli storici, il genocidio diventa da un lato uno tra i tanti eventi della storia concentrazionaria, dall’altro – punto su cui insiste a ragione lo storico Maxime Steinberg – un fenomeno sfaccettato, cui viene di conseguenza sottratta la sua specificità autenticamente ebraica. E’ vero che il genocidio ha falcidiato gli ebrei, si dirà, ma ha colpito anche zingari e slavi, coinvolgendo persino omosessuali e resistenti: <<La memoria di Auschwitz, eretto dai suoi guardiani a simbolo del genocidio per antonomasia, consacra questo complesso amalgama di campo di sterminio e di concentramento al tempo stesso>> (M. Steinberg). Alcuni storici, anche di chiara fama, credono di poter aggirare l’ostacolo distinguendo tra campo di sterminio e campo di concentramento. Ma dire che si sbagliano è dir poco: quando si affronta la questione della Shoah, è la nozione
stessa di campo, indipendentemente dai termini utilizzati per definirlo – campo della morte, campo di sterminio – che occorre eliminare. Infatti tale nozione, legata alla storia del genocidio, alla sua preparazione e alla sua inesorabile messa in atto, è sempre fuori luogo, sempre inefficace. Inoltre, designare indifferentemente Dachau e Treblinka con un’espressione comune è un controsenso storico, dal momento che furono gli stessi nazisti a stabilire una distinzione tra i due tipi di istituzione. Definivano Dachau e i luoghi cui è servito da modello usando il termine Konzentrationslager, letteralmente campo di concentramento (KL), mentre luoghi come Treblinka, Majdanek o Chelmno erano chiamati SS Sonderkommandos, kommandos speciali della polizia e delle SS (SK). Nel secondo caso non si tratterà più di isolare e parcheggiare esseri umani più o meno maltrattati, ma di sterminarvi con metodo e sistematicità, giorno dopo giorno e
seduta stante, tutti gli ebrei che vi saranno destinati. Gli SK sono solo luoghi di transito e portano, senza indugi e mezzi termini, dal ghetto al macello. Gli SS Sonderkommandos, concepiti come veri e propri macelli, prima artigianali poi industriali, con le loro camere a gas e i forni crematori che lavorano a pieno ritmo – bisogna preparare i vivi prima della doccia e trasportare i cadaveri dopo -, i depositi in cui si ammassano i beni sottratti ai deportati (capelli, abiti, orologi, gioielli, denaro ecc.), richiederanno ben presto la presenza di veri e propri kommando di operai specializzati. Questi, scelti tra i deportati ebrei più forti (di solito uomini e donne giovani), saranno alloggiati all’interno del Sonderkommando SS: a volte poche decine, altre volte centinaia, se non addirittura un migliaio. Poco importa: <<Nemmeno con i loro detenuti becchini>> scrive Steinberg <<i sei Sonderkommandos SS, creati su questo modello tra il dicembre del 1941 e il luglio del 1942 sul
territorio polacco così com’era prima del 1939, saranno mai campi di sterminio. Tale denominazione non appartiene infatti a quell’epoca>>. A loro volta, le SS del Sonderkommando non assomigliano affatto alle guardie di un campo. In quelli che Raul Hilberg, il grande storico della Shoah, ha definito in modo assai efficace centri di morte immediata, detti anche centri di sterminio, operano infatti degli assasini. Paradossalmente, quindi, la Shoah si svolge al di fuori del sistema concentrazionario nazista. A un massacro senza precedenti corrisponde un’organizzazione senza precedenti. Il centro di sterminio non è altro che una fabbrica di
morte. Indipendenti dal sistema concentrazionario nazista, gli SK sfuggono al suo sistema d’ispezione (IKL), eccetto Auschwitz e Majdanek, atipici, in quanto sono contemporaneamente campi di concentramento e centri di sterminio, mentre l’unica funzione di Belzec […], Chelmno, […] Sobibor e Treblinka, tutti capolinea ferroviari, è lo sterminio sistematico, immediato e su scala industriale degli ebrei d’Europa.
(J. Kotek – P. Rigoulot, Il secolo dei campi. Detenzione, concentramento e sterminio 1900-2000, Milano, Mondadori, 2001, pp. 309-311 Traduzione di A. Bernabbi)

LA RELAZIONE INTRODUTTIVA DEL PROCURATORE HAUSNER AL PROCESSO EICHMANN
Il procuratore israeliano Gideon Hausner espose la sua relazione introduttiva nell’aprile 1961. Il discorso fu pronunciato in lingua ebraica. I 14 capi di imputazione avanzati contro Eichmann possono essere raggruppati in tre gruppi fondamentali: crimini di guerra, crimini contro l’umanità (concetto giuridico già introdotto al processo di Norimberga) e crimini contro il popolo ebraico (espressione introdotta da una legge israeliana del 1950, emanata al fine di poter perseguire i criminali nazisti e i loro collaboratori).

“Sin dalle origini, l’umanità ha conosciuto le guerre di sterminio: e i popoli si sono schierati l’uno contro l’altro per distruggersi. La febbre della guerra ha decimato, massacrato e cacciato dai loro paesi intere nazioni. Ma la nostra generazione ha avuto la tragica prerogativa di assistere all’aggressione di un esercito contro una popolazione pacifica e inerme, contro uomini, donne, vecchi, bambini, lattanti, rinchiusi entro reticolati ad alta tensione, segregati nei campi di concentramento, murati nei ghetti, per essere sterminati tutti, uno ad uno, fino all’ultimo. L’assassinio non è un fatto nuovo sulla terra. La storia ha inizio con la morte di Abele, ucciso dal fratello Caino. Ma bisognava giungere al XX secolo per assistere a questo nuovo genere di delitti: non più commessi sotto l’impulso di una passione improvvisa o di oscuri smarrimenti, ma in seguito a decisioni ponderate, e applicate con una tecnica metodica e gelidamente razionale. Non c’è più qui un assassino solo, ma una organizzazione gigantesca di migliaia di criminali; e la vittima non è un uomo, ma un popolo intero. Al tempo stesso ci troviamo di fronte a un tipo particolare di carnefice, che compie le sue stragi stando seduto alla scrivania e raramente uccide con le proprie mani. Conosciamo con sicurezza solo un caso d’assassinio commesso personalmente da Eichmann: l’imputato uccise a bastonate, nel suo giardino di Budapest, un bambino ebreo che aveva cercato di cogliere una pesca. Ma era lui che pronunciava gli ordini per l’impiego delle camere a gas, lui che con una telefonata faceva partire i treni verso i campi di sterminio, lui che con la sua firma segnava la sorte di migliaia e migliaia di sventurati. Eichmann si limitava a dare ordini: ma in base a quegli ordini i suoi accoliti deportavano, bastonavano e torturavano gli ebrei, li segregavano nei ghetti, li bollavano con un marchio d’infamia, li spogliavano d’ogni loro avere, e dopo averli privati di tutto, perfino dei capelli che venivano utilizzati industrialmente, li annientavano nei campi di sterminio, strappando ai cadaveri i denti d’oro e gli anelli nuziali. Ann i atteggia a uomo sensibile, a intellettuale; per lui, l’ordine di sterminio è solo un foglio di carta da tradurre in atto: in realtà proprio lui ha concepito e organizzato il massacro, ha fatto versare torrenti di sangue. In base ai suoi ordini, si assassinava, si depredava, si torturava. Egli è dunque colpevole, come se avesse stretto con le sue mani la corda intorno al collo delle vittime, come se avesse cacciato di persona, a colpi di frusta, i condannati nelle camere a gas, sparato i colpi alla nuca, gettato a uno a uno, nella fossa comune, a milioni, i cadaveri degli assassinati. […] La decisione di sterminare milioni di uomini che non avevano commesso alcun delitto, solo perché erano ebrei, fu presa e messa in atto col ricorso a tutti i mezzi che la tecnica moderna poteva suggerire ai carnefici. Per qualificare questo delitto senza precedenti, compiuto da europei del XX secolo, è stato necessario creare un termine di criminologia che l’umanità non aveva mai conosciuto, neanche nei tempi pià oscuri della sua storia: il genocidio. Del martirio del popolo ebraico nella nostra generazione si è parlato in vari processi svoltisi dopo la disfatta tedesca: quando, giudicando i criminali, si volle scongiurare il ripetersi delle guerre e delle catastrofi che ci hanno avuto a testimoni. Ma la tragedia degli ebrei non era mai stata, finora, oggetto di un processo, benché la sua evocazione suscitasse ogni volta un sentimento d’orrore; si trattava, in quei casi, di criminali colpevoli di delitti commessi anche contro altri popoli. Solo un uomo si dedicò esclusivamente agli ebrei, partecipando alle scellerate iniziative del regime nazista specificamente per quel che riguardava gli ebrei e il loro sterminio. Quest’uomo è Adolf Eichmann. Se ci occuperemo dei crimini che egli di tanto in tanto commise contro dei non ebrei, lo faremo perché non conosciamo distinzioni razziali. Non va però dimenticato che il macabro lavoro cui per anni l’accusato si dedicò, con lo zelo di un vero apostolo, consacrandovi corpo e anima, fu quello di sterminare gli ebrei. (G. Hausner, Sei milioni di accusatori. La relazione introduttiva del procuratore generale al processo Eichmann, Torino, Einaudi, 2010, pp. 3-6. Traduzione di L. Gonsalez)

ISRAELE, MASADA E YAD VASHEM
Inizialmente, lo Stato di Israele ebbe un rapporto delicato, difficile e complesso con la Shoah. Nelle cerimonie pubbliche, l’accento cadeva soprattutto sulla memoria della rivolta di Varsavia, mentre il nuovo ebreo combattente preferiva identificarsi con gli eroi di Masada (la fortezza difesa fino all’ultimo dai ribelli della grande rivolta giudaica degli anni 66-74 d.C.), piuttosto che con i deportati di Auschwitz o Treblinka. Tra il 1945 e la metà degli anni Sessanta, l’episodio di Masada e la Shoah costituiscono i due poli della religione e della memoria in Israele. A lungo trascurata dalla storiografia ebraica, la storia dell’assedio e del suicidio
collettivo di Masada è riportata alla luce nel XX secolo, in particolare dopo il genocidio. Il movimento sionista dà improvvisamente un posto di primo piano alla storia di questa fortezza, nella quale vede un simbolo della lotta nazionale per l’indipendenza, prendendosi peraltro qualche libertà rispetto alla verità storica, fino a mutilare il racconto di Flavio Giuseppe. Masada è trasformata in simbolo dell’anti-Galut [= diventa l’opposto dell’esilio, della diaspora, della dispersione tra le nazioni, dell’assenza dello Stato, considerata la ragione primaria che ha reso possibile il genocidio – n.d.r.]. A partire dal 1942 però la glorificazione dell’episodio prende un altro corso. Masada appariva allora come un contromodello, nel momento in cui lo Yishuv [= l’insediamento ebraico in Palestina – n.d.r.] è a sua volta in pericolo di fronte all’avanzata tedesca. Nel 1943, nel corso di una commemorazione organizzata a Tel Hai, Ben Gurion giustappone i due episodi storici in cui – spiega – contrariamente a quanto aveva fatto la diaspora lasciandosi sterminare, gli ebrei avevano preso in mano il loro destino. L’insurrezione del ghetto di Varsavia (aprile-maggio 1943) è vista ben presto dalla stampa dello Yishuv come la <<Masnada del giudaismo europeo>>. Si tratta di essere attori protagonisti nella storia e non soggetti passivi, di essere un <<Ebreo nuovo>> e non un <<alienato dell Galut>>. La strumentalizzazione della tragedia prosegue per decenni, intensificandosi persino dopo le guerre dei Sei Giorni e del Kippur, nel corso delle quali è continuamente ricordato lo slogan Shenit Masnada lo tipol (Masnada non cadrà una seconda volta). La luce proiettata sul suicidio collettivo dei difensori della fortezza fa cadere un’ombra di tristezza e di vergogna sulle vittime del genocidio. […] I progetti per i monumenti commemorativi si moltiplicano a partire dal 1945. Nell’aprile di quell’anno il KKL [= Keren Kayemeth LeIsrael, associazione americane finalizzata allo sviluppo della terra di Israele – n.d.r.] e il Keren Hayesod [= associazione finalizzata alla raccolta dei fondi necessari alla nascita dello Stato ebraico – n.d.r.] lanciano un appello al giudaismo americano per la costruzione di un monumento che renderebbe la terra di Israele il polo unificatore del giudaismo; in prospettiva è sottesa l’idea dello Stato ebraico futuro inteso come redenzione dopo l’abisso. Nel maggio 1945 un membro del kibbutz Yagur propone di innalzare come monumento un libro del ricordo in ventidue volumi, uno per ogni lettera dell’alfabeto ebraico, dove verrebbero raggruppati i nomi di tutti gli scomparsi. Si tratta di offrire una sepoltura alle vittime svanite senza lasciare traccia, ispirandosi al versetto del libro di Isaia (56,5), da cui il
memoriale Yad Vashem trae il proprio nome [Yad Vashem significa alla lettera Un posto e un nome, facendo eco a Is. 56,5: <<Io darò loro, nella mia casa e dentro le mie mura, un posto ed un nome, che varranno meglio di figli e di figlie; darò loro un nome eterno, che non perirà più>> – n.d.r.]. Nel luglio 1945 gli ambienti ortodossi a loro volta propongono di erigere un monumento sul Monte degli Ulivi a Gerusalemme. L’anno successivo una personalità del Mizrahi (sionista religioso), membro del Comitato Yad Vashem, propone come monumento commemorativo la costruzione di yeshivot [= case di preghiera – n.d.r.] ecc.
Il futuro Comitato Yad Vashem precisa la propria posizione nell’autunno 1945: <<La forza del ricordo: noi consideriamo questo obiettivo come quello di più grande importanza. Il popolo ebraico ha saputo esprimere un talento particolare per fare di alcuni avvenimenti storici momenti di memoria solenne per le generazioni succesive>>. Mordechai Shenhavi ricorda l’uscita dall’Egitto, la distruzione dei due Templi, l’eroismo delle guerre giudaiche ecc. Nel 1946, in uno Yishuv dominato dal sionismo laburista, si delinea una visione laica del ricordo della catastrofe, nella quale le vittime della Shoah sono unite, nella commemorazione, insieme a tutti i combattenti ebrei, soldati ebrei degli eserciti alleati, emissari dello Yishuv in Europa e soldati della Haganah [= le forze armate dell’insediamento ebraico in Palestina – n.d.r.]. Si decide di incidere queste parole sul Memoriale futuro:
<<Yad Vashem
Ai martiri dello sterminio e ai ribelli dei ghetti
Alle comunità distrutte
Ai soldati caduti in battaglia
E a tutti coloro che sono venuti in soccorso del loro popolo>>.
Yad Vashem nasce formalmente nell’ottobre 1946, in cooperazione con numerose altre istituzioni. Esposto al pubblico il 2 giugno 1947, il progetto dà ampio spazio alla raccolta di documenti, in continuità con il lavoro iniziato tre anni prima dal Comitato centrale di storia ebraica della Polonia, che aveva già raccolto più di 7000 testimonianze e 300 diari. […] A partire dal processo Eichmann, e fino alla guerra del Kippur, la memoria israeliana del genocidio prende in poco tempo la forma che ha ancora oggi. La prima commemorazione è messa in atto nel 1961 nel contesto del processo. Nel febbraio 1962, Yad Vashem decide di creare un dipartimento dedicato ai Giusti, il cui viale eponimo è inaugurato il 1° marzo 1962. La Commissione in carica l’anno successivo ha il compito di designare i Giusti, prima che siano loro assegnati diploma e medaglia e che sia piantato un albero in loro onore. (G. Bensoussan, Israele, un nome eterno. Lo Stato di Israele, il sionismo e lo sterminio degli ebrei d’Europa (1933- 2007), Torino, UTET, 2009, pp. 152-154. Traduzione di L. Verrani)

L’ARRINGA INTRODUTTIVA DI JACKSON A NORIMBERGA
Il passo seguente è tratto dal diario che tenne durante il processo G. M. Gilbert, uno psichiatra americano incaricato dalle autorità militari alleate di dialogare con gli imputati e registrare le loro reazioni dopo ogni seduta del dibattito in aula. Il testo riassume uno dei primi interventi del procuratore Jackson e permette di comprenderne la linea accusatoria. Il procuratore Jackson ha definito i crimini contro gli ebrei <<i delitti più selvaggi e numerosi fra quelli pianificati e attuati dai nazisti… il ghetto era un laboratorio per sperimentare le misure repressive. Le proprietà degli ebrei furono le prime a essere espropriate, ma questo fenomeno si estese presto e colpì i tedeschi contrari al nazismo, i polacchi, i cecoslovacchi, i francesi e i belgi. Lo sterminio del popolo ebraico consentì ai nazisti di attuare con maggior sicurezza misure simili ai danni di polacchi, serbi e greci. La condizione degli ebrei costituiva una minaccia costante per altri gruppi che avrebbero potuto nutrire scontento e opporsi al nazismo: i pacifisti, i conservatori, i comunisti, i cattolici, i protestanti, i socialisti. Si trattava in effetti di una minaccia rivolta contro qualsiasi forma di dissenso o di stile di vita non nazista. Il risultato della politica di discriminazione razziale, prima nei ghetti, poi nei campi di concentramento e di sterminio, fu l’eliminazione del 60% degli ebrei che vivevano nei territori dominati dai nazisti: circa 5700 persone. <<La storia non ha mai registrato un crimine che abbia colpito un numero così elevato di vittime e compiuto con tanta calcolata crudeltà>>. Jackson ha citato Streicher [= Julius Streicher, direttore del giornale Der
Stürmer, il foglio antisemita più violento e volgare che fosse pubblicato in Germania – n.d.r.], che si lamentava degli insegnamenti cristiani, perché di ostacolo alla soluzione radicale della questione ebraica che Hitler aveva previsto per l’Europa. Hans Frank aveva affidato considerazioni simili nel suo diario e le aveva ripetutamente espresse durante discorsi ufficiali. Il giudice Jackson ha proseguito descrivendo le azioni specifiche che costituivano il programma di sterminio:
le infami leggi di Norimberga promulgate nel 1935; la sollevazione spontanea del 9-10 novembre 1938, accuratamente pianificata a tavolino; l’istigazione dei pogrom e le esecuzioni di massa nell’Europa orientale, a partire dal 1941; la crudeltà e il sadismo, le torture, la fame e le uccisioni di massa nei campi di concentramento, per non citare orrori quali gli esperimenti scientifici con cui si congelavano quasi a morte vittime di sesso maschile, riportate alla vita attraverso
rapporti sessuali con zingare nude, destinate a produrre, appunto, calore animale. <<Qui la degenerazione nazista ha raggiunto il suo culmine. Mi dispiace riportare agli atti racconti così perversi, ma il nostro triste compito è quello di processare dei criminali… Le nostre prove saranno disgustose e mi accuserete di avervi tolto il sonno. Ma questi fatti hanno rivoltato lo stomaco al mondo intero e fatto sì che ogni persona civile decidesse di combattere il nazismo>>. […]
Il procuratore Jackson ha continuato a elencare i crimini compiuti nel corso della guerra: l’uccisione di prigionieri di guerra e ostaggi; il furto di opere d’arte nei paesi occupati; l’impiego di lavoratori forzati e affamati; la guerra contro le popolazioni civili basata sull’ideologia della razza superiore. Infine, riassumendo le implicazioni morali e legali del processo, ga dichiarato: <<La vera vittima, seduta qui fra noi al processo, è la Civiltà. Essa è imperfetta in tutti i paesi. Ciò non significa che gli Stati Uniti o qualsiasi altro paese non abbia responsabilità per le condizioni che hanno reso il popolo tedesco facile preda delle blandizie e delle intimidazioni di cospiratori nazisti. In nome della civiltà, tuttavia, non possiamo dimenticare la terribile sequenza di aggressioni e crimini che vi ho elencato: né possiamo dimenticare lo scempio dei corpi, la distruzione delle risorse e di tutto ciò che di bello o utile era al mondo, e perfino il pericolo che queste distruzioni possano, un giorno, essere ancora più ingenti… L’unica speranza per gli imputati è che il diritto internazionale sia meno progredito del senso morale dell’umanità, e che un crimine in senso etico venga considerato non punito a termini di legge. Il nostro compito sarà di sfidare questa affermazione>>.
(G.M. Gilbert, Nelle tenebre di Norimberga. Parla lo psicologo del processo, Torino, SEI, 2005, pp. 38-40. Tradizione di D. Forno)

– Si può affermare che, secondo il procuratore Jackson, il comportamento nazista contro gli ebrei fu specifico e
particolare, riservato esclusivamente a loro?
– Quale motivazione comune è individuata da Jackson alla base di tutti i crimini nazisti?
– Spiega l’espressione: <<L’unica speranza per gli imputati è che… un crimine in senso etico venga considerato non punito a termini di legge>>.

IL SIGNIFICATO DELLA CONFERENZA DI WANNSEE, NELLA LETTURA DI HANNA ARENDT
Nel suo libro sul processo ad Eichmann, Hanna Arendt dedicò un intero capitolo alla conferenza di Wannsee. A suo giudizio, quella conferenza al vertice si segnalava proprio per la sua apparente normalità amministrativa, capace di addormentare le coscienze e di trasformare il crimine in routine ordinaria.
La riunione si era resa necessaria perché la soluzione finale, se doveva essere applicata in tutta l’Europa, richiedeva qualcosa di più che il tacito consenso dell’apparato statale: richiedeva la collaborazione attiva di tutti i ministeri e di tutti i servizi civili. Quanto ai ministri, questi, nove anni dopo l’ascesa di Hitler al potere, erano tutti nazisti della prima ora; e infatti quelli che nel primo periodo del regime si erano limitati ad allinearsi erano stati poco per volta congedati. […] Il
problema tuttavia era molto più acuto per quel che riguardava gli alti funzionari dei servizi civili, alle dirette dipendenze dei ministri, poiché questi uomini, che sono l’ossatura di ogni amministrazione governativa, non erano facilmente sostituibili: perciò Hitler in molti casi aveva dovuto chiudere un occhio, esattamente come avrebbe fatto più tardi Adenauer, a meno che non fossero irrimediabilmente compromessi. E’ per questo che sovente i sottosegretari e gli esperti dei vari ministeri non erano neppure membri del partito, e si comprende quindi come Heydrich non fosse affatto sicuro di accaparrarsi l’appoggio concreto di queste persone per il programma di sterminio. Come disse Eichmann, Heydrich <<si aspettava d’incontrare gravissime difficoltà>>. E invece, nulla di più infondato di questo timore. […] La cosa più importante, come giustamente osservò Eichmann, era che i rappresentanti dei vari servizi civili non si limitavano a esprimere pareri, ma avanzavano proposte concrete. La seduta non durò più di un’ora, un’ora e mezzo, dopo di che ci fu un brindisi e tutti andarono a cena [forse, data l’ora – 13.30 circa – sarebbe più corretto dire pranzo – n.d.r.] – <<una festicciola in famiglia>> per favorire i necessari contatti personali. Per Eichmann, che non si era mai trovato in mezzo a tanti grandi personaggi, fu un avvenimento memorabile; egli era di gran lunga inferiore, sia come grado che come posizione sociale, a tutti i presenti. Aveva spedito gli inviti e aveva preparato alcune statistiche (piene di incredibili errori) per il discorso introduttivo di Heydrich – bisognava uccidere undici milioni di ebrei, che non era cosa da poco – e fu lui a stilare i verbali. In pratica funse da segretario, ed è per questo che, quando i grandi se ne furono andati, gli fu concesso di sedere accanto al caminetto in compagnia del suo capo Müller e di Heydrich, <<e fu la prima volta che vidi Heydrich fumare e bere>>. Non parlarono di affari, ma si godettero <<un po’ di riposo>> dopo tanto lavoro, soddisfattissimi e – soprattutto Heydrich – molto su di tono. Ma anche per un’altra ragione quella giornata fu indimenticabile per Eichmann. Benché egli avesse fatto del suo meglio per contribuire alla soluzione finale, fino ad allora aveva sempre nutrito qualche dubbio su <<una soluzione così violenta e cruenta>>. Ora questi dubbi furono fugati. <<Qui, a questa conferenza, avevano parlato i personaggi più illustri, i papi del Terzo Reich>>. Ora egli vide con i propri occhi e udì con le proprie orecchie che non soltanto Hitler, non soltanto Heydrich o la sfinge Müller, non soltanto le SS o il partito, ma i più qualificati esponenti dei buoni vecchi servizi civili si disputavano l’onore di dirigere questa crudele operazione. <<In quel momento mi sentii una specie di Ponzio Pilato, mi sentii libero da ogni colpa>>. Chi era lui, Eichmann, per ergersi a giudice? Chi era lui per permettersi di <<avere delle idee proprie>>? Orbene: egli non fu né il primo né l’ultimo ad essere rovinato dalla modestia. Così la sua attività prese un nuovo indirizzo, divenendo ben presto un lavoro spicciolo, di tutti i giorni. Se prima egli era stato un esperto in emigrazione forzata, ora diventò un esperto in evacuazione forzata. (H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 2003, pp. 120-122. Traduzione di P. Bernardini)

LA SHOAH NELLA LOTTA POLITICA ISRAELIANA
La guerra in Libano del 1982 lacerò profondamente il paese; e poiché il primo ministro Begin e i suoi sostenitori, per giustificare il loro operato, facevano continuamente ricorso alla Shoah, si verificò all’interno di Israele una specie di guerra della memoria, finalizzata a definire col massimo di chiarezza possibile il posto che il ricordo dello sterminio doveva occupare nella vita civile dello stato ebraico. Shlomo Schmelzman, sopravvissuto del ghetto di Varsavia e di Buchenwald, per protestare contro sia contro la guerra in Libano, sia contro la politicizzazione dell’Olocausto, tentò di attuare uno sciopero della fame all’interno di Yad Vaschem. Tra gli intellettuali, invece, la voce più ferma fu quella dello scrittore Amos Oz, che pubblicò una lettera aperta al primo ministro, da cui è tratto il passo seguente. Adolf Hitler ha distrutto un terzo del popolo ebraico, fra cui i suoi genitori e parenti, e la mia famiglia. Anch’io, come molti ebrei, scopro spesso nel profondo del cuore una pena sorda per non aver ucciso Hitler con le mie mani. Sono sicuro che anche in lei alberga una fantasia analoga. Non c’è, né ci sarà mai, una cura che guarisce questa ferita sempre aperta dentro la nostra anima. DEcine di migliaia di arabi morti non la saneranno. Ma, signor primo ministro, Adolf Hitler è morto trentasette anni fa. Fortunatamente o sfortunatamente, questo è un dato di fatto: Hitler non è nascosto a Nabatea, a Sidone o a Beirut. È morto e sepolto. Lei, signor Begin, mostra ripetutamente uno strano impulso a resuscitare Hitler per poterlo uccidere di nuovo ogni giorno, alla maniera dei terroristi. … Questo impulso a riportare sempre in vita Hitler per poterlo ogni volta annientare è il frutto di una melanconia che spetta ai poeti esprimere, ma in uno statista è un rischio che minaccia di condurlo su una strada mortalmente pericolosa.
(T. Segev, Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia di Israele, Milano, Mondadori, 2001, pp. 368-369)

AUSCHWITZ: UNA SFIDA PER LA FEDE DI ISRAELE
La presenza di Dio nella Storia, di Emil Fackenheim, uscì nel 1970. Al centro della riflessione dell’autore sta la crisi di tutte le precedenti categorie utilizzabili, per spiegare la sofferenza di Israele. Ciò nonostante, Fackenheim conclude in modo imperativo affermando che non si deve abbandonare la fede dei Padri: chi lo facesse, concederebbe a Hitler una clamorosa vittoria postuma. È chiaro che il lungo silenzio teologico era necessario. Il silenzio sarebbe forse la cosa migliore anche se non fosse per il fatto che le barriere tra le nazioni sono infrante e che per questa sola ragione il tempo del silenzio teologico è irrimediabilmente passato. Ma cominciare a parlare significa mettere radicalmente in questione alcune dottrine midrashiche [= tipiche della tradizione ebraica – n.d.r.] onorate nel tempo; e tra queste una è immediatamente sconvolta. Come abbiamo visto, anche gli antichi rabbini furono costretti a sospendere il biblico  <<siamo puniti per i nostri peccati>>, forse non in risposta alla distruzione del tempio da parte di Tito ma alla paganizzazione di Gerusalemme da parte di Adriano. Anche noi possiamo al più lasciare momentaneamente in sospeso la dottrina biblica solo per il fatto che, come i rabbini, non possiamo né negare i nostri peccati né isolarli dalla storia. Eppure dobbiamo sospenderla. Perché, comunque noi giriamo e rigiriamo tale dottrina in risposta ad Auschwitz, essa diventa un’assurdità religiosa e addirittura un sacrilegio. <<Peccato>> ed <<espiazione>> devono assumere una connotazione individuale? Che idea sacrilega, quando si pensi che tra le vittime dei nazisti vi furono più di un milione di bambini! Dobbiamo dar loro una connotazione collettiva? Che idea terribile, se si pensa che non furono le nostre comunità ebraiche, occidentali, agnostiche, infedeli e ricche, ma quelle più povere, devote e fedeli che furono più duramente colpite! Quando nel nostro tormento ci rivolgiamo in un ultimo tentativo alla dottrina tradizionale per cui tutti gli israeliti di tutte le generazioni sono responsabili l’uno per l’altro, noi continuiamo a sentirci completamente sconcertati perchè non un solo dei sei milioni morì perché esso non mantenne il patto divino-ebraico: essi morirono tutti perché i loro nonni lo avevano rispettato, al limite solo per aver allevato bambini ebrei. Ecco il punto in cui tocchiamo l’assurdo religioso radicale. Ecco lo scoglio contro il quale naufraga senza rimedio l’idea che <<siamo puniti per i nostri peccati>>.
Ma allora gli ebrei morirono forse ad Auschwitz per i peccati degli altri? Il fatto è evidentemente abbastanza ovvio, ed è sempre più evidente che questi atti corrispondevano ai criminali nazisti. Il problema sta però nel sapere se si può scoprire in questo fatto un significato religioso, se noi, come tante generazioni precedenti, possiamo far ricorso all’idea del martirio. […] Può ancora confortare la coscienza ebraica dopo Auschwitz? Quando le bande dei crociati si
scatenarono contro gli ebrei delle città renane di Worms e Magonza (1096 d. C.) esse offrirono loro in teoria, se non in pratica, la scelta tra morte e conversione permettendogli quindi di scegliere il martirio. Ad Auschwitz, invece, non ci fu scelta; vecchi e giovani, fedeli e non fedeli furono sterminati senza discriminazione. Vi può essere martirio quando non vi è scelta? […] Auschvitz fu il tentativo supremo, il più diabolico che sia mai stato fatto di uccidere lo stesso martirio e di privare ogni morte, compreso il martirio, della sua dignità. […] Che cosa comanda la voce di Auschwitz? Gli ebrei non hanno il diritto di concedere a Hitler delle vittorie postume. Essi hanno il dovere di sopravvivere come ebrei, perché il popolo ebreo non abbia a perire. Essi non hanno il diritto di disperare dell’uomo e del suo mondo e di trovare rifugio sia nel cinismo sia nell’aldilà, se non vogliono contribuire ad abbandonare il mondo alle forze di Auschwitz. Infine essi non hanno il diritto di disperare del Dio di Israele, perché l’ebraismo non perisca. Un secolarista ebreo non può trasformarsi in un credente per un semplice atto di volontà, né gli si può imporre di farlo… Ed un ebreo religioso che è stato fedele al suo Dio può essere costretto ad un nuovo rapporto magari rivoluzionario con lui. Una
possibilità comunque è del tutto impensabile. Un ebreo non può rispondere al tentativo di Hitler di distruggere l’ebraismo cooperando egli stesso a tale distruzione. Nei tempi antichi il peccato impensabile per gli ebrei era l’ateismo. Oggi consiste nel rispondere a Hitler compiendo la sua opera.
(E. L. Fackenheim, La presenza di Dio nella storia. Saggio di teologia ebraica, Brescia, Queriniana, 1977, pp. 97-99 e 111-112)

IL CONCETTO DI DIO DOPO AUSCHWITZ
Nato nel 1903, Hans Jonas studiò teologia e filosofia in Germania con Husserl, Heidegger e Bultmann. Emigrò nel 1933 e quindi riuscì ad evitare la Shoah, che invece travolse sua madre. Famoso per i suoi studi sullo gnosticismo e per i suoi trattati di etica, Jonas tenne la conferenza Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica a Tubinga, nel 1984. In quella circostanza, Jonas avanzò provocatoriamente la proposta di cancellare l’onnipotenza dagli attributi di Dio, pena la rinuncia alla Sua bontà ed alla comprensibilità del Suo agire nel mondo e nella storia. La onnipotenza divina può coesistere con la bontà assoluta di Dio solo al prezzo di una totale non comprensibilità di Dio, cioè dell’accezione di Dio come mistero assoluto. Di fronte all’esistenza nel mondo del male morale o anche solo del male meramente fisico, dovremmo sacrificare la comprensibilità di Dio alla coesistenza in lui degli altri due attributi. Solo di un Dio totalmente incomprensibile si può affermare che è assolutamente buono e cooriginariamente assolutamente onnipotente e che, nonostante ciò, sopporta il mondo così com’è. Più in generale, i tre attributi in questione – bontà assoluta, potenza assoluta e comprensibilità – sono fra loro in rapporto tale che ogni relazione tra due di loro esclude il terzo. Questo è allora il problema vero: quali sono i due concetti veramente irrinunciabili, fondamentali per il nostro concetto di Dio e quale è il terzo che deve essere escluso? Certo la bontà, cioè la volontà del Bene, è inseparabile dal nostro concetto di Dio e non può sottostare a nessuna limitazione. La comprensibilità o la conoscibilità che è doppiamente condizionata, dall’essenza di Dio e dalla limitatezza umana, è, in ultima analisi, certamente un attributo limitato, tuttavia non può essere in nessun modo negata. Il Deus absconditus, il Dio nascosto (per non parlare del Dio assurdo) è un concetto del tutto estraneo all’ebraismo. La
nostra dottrina, la Thora, si fonda sul presupposto che noi possiamo conoscere Dio, ovviamente non in modo perfetto, ma limitato: che noi conosciamo cioè qualcosa di lui, del suo volere, delle sue intenzioni e della sua essenza, dal momento che egli stesso ce lo ha rivelato. Ci fu la Rivelazione, possediamo i suoi comandamenti e la sua legge, a molti – i suoi profeti – egli si rivolse direttamente, affinché trasmettessero la sua parola a tutti nel linguaggio degli uomini e del tempo; egli ha parlato ricorrendo a questo mezzo imperfetto, non si è chiuso perciò in un impenetrabile mistero. Il concetto di un Dio totalmente nascosto è conseguentemente inammissibile per la fede ebraica. Ma certamente Dio dovrebbe essere incomprensibile se con la bontà assoluta gli venisse attribuita anche
l’onnipotenza. Dopo Auschwitz possiamo e dobbiamo affermare con estrema decisione che una Divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile (nel governo del mondo in cui noi unicamente siamo in condizione di comprenderla). […] Di fronte alle cose veramente inaudite che, nel creato, alcune creature fatte a sua somiglianza, hanno fatto ad altre creature innocenti, ci si dovrebbe aspettare che il Dio, somma bontà, […] intervenga con un miracolo di salvezza. Ma questo miracolo non c’è stato; durante gli anni in cui si scatenò la furia di Auschwitz Dio restò muto. […] Dio tacque. Ed ora aggiungo: non intervenne, non perché non lo volle, ma perché non fu in condizione di farlo. Per ragioni che in modo decisivo derivano dall’esperienza contemporanea, propongo quindi l’idea di un Dio che per un’epoca determinata – l’epoca del processo cosmico – ha abdicato ad ogni potere di intervento nel corso fisico del mondo. […] La
creazione fu l’atto di assoluta sovranità, con cui la Divinità ha consentito a non essere più, per lungo tempo, assoluta – una opzione radicale a tutto vantaggio dell’esistenza di un essere finito capace di autodeterminare sè stesso – un atto infine dell’autoalienazione divina.
(H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Genova, Il Melangolo, 1989, pp. 33-37. Traduzione di C. Angelino)

INTERVISTE E DIBATTITI
Nel 1998, il giornalista americano Ron Rosenbaum pubblicò un denso volume in cui raccolse le interviste che aveva compiuto a numerosi intellettuali (storici, filosofi, registi…) che per svariati motivi si erano occupati di Hitler e della Shoah. Tra gli altri, furono intervistati anche lo storico israeliano Yehuda Bauer, uno dei più prestigiosi studiosi del genocidio ebraico, ed Emil Fackenheim. Mentre lo storico espresse il proprio ateismo disperato, Fackenheim arrivò ad affermare l’esistenza – dopo Ausschwitz – di un nuovo precetto ebraico, da aggiungere ai 613 già presenti nella Torah. Sulla natura malefica di Hitler Bauer non ha dubbi: Hitler è <<quel che definirei il male quasi estremo>>. L’idea di un male quasi estremo servì da ponte alle stupefacenti, addirittura traumatiche osservazioni di Bauer su Dio. Per essere uno che non crede all’esistenza di Dio – mi aveva detto di essere ateo -, Bauer ha una serie di opinioni piuttosto solide su come dovrebbe essere se ci fosse. […] <<In nessun modo Dio può essere al tempo stesso onnipotente e giusto; o è onnipotente, o è giusto. Perché, se è onnipotente, è Satana; se è giusto, è un nebbish [= termine yiddish che significa poveraccio, miserabile – n.d.r.]. Dio come Satana? Di rado mi era capitato di incontrare una formulazione altrettanto radicale del problema della todicea (il tentativo di conciliare con la permanenza del male l’esistenza di un Dio che si presume amoroso e giusto). Volendo esporre per esteso i postulati impliciti nel sintetico sillogismo <<Dio come Satana o come nebbish>>, ecco che cosa intende dire Bauer: un Dio onnipotente che sia giusto e amoroso non avrebbe permesso, per nessuna ragione, in nome di nessun presunto piano, che sei milioni di innocenti fossero massacrati. Se è onnipotente, sarebbe potuto intervenire (così come, nella Bibbia, è intervenuto in tante occasioni in cui il rischio era minore), e se è giusto,
sarebbe voluto intervenire. Se è onnipotente e ha permesso che il male quasi estremo prevalesse, che un milione di bambini fossero massacrati, praticamente sotto gli occhi dei genitori, senza intervenire, tanto vale che sia Satana. Il che ci conduce al secondo elemento del sillogismo: se Dio è giusto non può essere troppo potente, perché se è giusto vorrebbe intervenire, ma non ha potere sufficiente a cambiare la situazione: è un Dio pieno di buone intenzioni, ma che
ci impressiona ben poco. <<Un nebbish?>>. <<Be’, sa, un poveraccio che dev’essere sostenuto […]. Di un Dio così, non so che farmene. Che razza di Dio
è: non è un essere onnipotente, però è onnipresente? >>. L’ultima frase su un Dio <<onnipresente>> alludeva alla tormentata argomentazione proposta da Emil Fackenheim per spiegare come mai ad Auschwitz fosse assente quella che lo stesso Fackenheim chiama <<la voce autorevole di Dio>>. Fackenheim avrebbe voluto trovare una qualche presenza di Dio nei campi di sterminio, anche soltanto una presenza silenziosa, di testimone. Ma Bauer non sopporta più un Dio che si limita a soffrire in silenzio insieme con le vittime: <<Quando è lì, piange… già, ma mi serve a poco. È del tutto superfluo. In una simile concezione non c’è più qualcuno da pregare>>. […] Elie Wiesel è famoso per un’immagine impressionante di quella che si potrebbe chiamare l’esecuzione capitale di Dio. Per aver descritto, in La notte, lo spettacolo orribile di u ragazzo impiccato dalle guardie del campo di sterminio, e per aver gridato che, per lui, il ragazzo appeso a quel cappio era Dio: Dio che ormai, per lui, era morto. (In un saggio scritto per lo Yom Kippur del 1997, Wieseldice che dopo mezzo secolo vuole <<far pace>> con il Dio abbandonato su quella forca, sebbe <<Auschwitz deve per sempre restare, e sempre resterà, un punto interrogativo>> che nessuna <<risposta teologica>> ha ancora spiegato.) Fackenheim vuole far scendere Dio da quella forca. La sua visione di un Dio che nei campi di sterminio non era una presenza <<autorevole>>, bensì silenziosa, è alquanto più complessa di come la vedeva Yehuda Bauer nella sua descrizione caricaturale di <<un Dio che è presente e piange insieme a te>>. Piuttosto, Fackenheim recupera la presenza di Dio nei gesti di eroismo, tenacia, amore e fede manifestati dai prigionieri del campo messi di fronte al male radicale. E questa, secondo la sua definizione, è la voce autorevole di Auschwitz, la voce che proibisce vittorie postume a Hitler. Tuttavia, lo stesso Fackenheim non sostiene la tesi che questo concetto di una presenza silenziosa risolva il mistero del ritiro di Dio nel silenzio quando coloro che lo pregavano erano esposti al pericolo estremo. Solo che per Fackenheim l’alternativa è intollerabile. Non tanto perché vorrebbe dire accettare il sillogismo di Bauer, secondo cui Dio o è Satana, o è un nebbish, quanto perché una simile accettazione, quel rifiuto o liquidazione di Dio da parte degli ebrei, sarebbe in effetti comandato da Adolf Hitler e gli darebbe da morto quella vittoria definitiva sugli ebrei che da vivo gli era stata negata. Uno sterminio della fede più completo dello sterminio dei credenti. Secondo Fackenheim, ne sono convinto, cedere alla logica spoglia del sillogismo di Yehuda Bauer – se Dio è onnipotente, ha permesso che l’Olocausto accadesse, dunque l’ha causato – significa fare di Dio Hitler o di Hitler Dio. La ribellione di Fackenheim contro questa scelta impossibile, che porta in un vicolo cieco, la ribellione contro l’idea che sia Hitler a prescrivere quel che gli ebrei devono pensare di Dio lo ha indotto appunto a concepire il suo seicentoquattordicesimo precetto. […] Per quanto io respinga tutte le consolazioni e le razionalizzazioni con le quali la teodicea cerca di spiegare Hitler, io mi rifiuto di concedere a Hitler il potere, mi rifiuto di permettere a Hitler di essere il catalizzatore, la ragione decisiva del mio rifiuto di quel Dio con il quale per tremila anni i miei avi hanno vissuto e per il
quale sono morti, nella buona e nella cattiva sorte. Rifiutate Dio per qualsiasi altra cosa: perché non esiste, per il suo silenzio, per la sua morte, ma non per Hitler: non concedete a Hitler questo potere, questa vittoria postuma.
(R. Rosenbaum, Il mistero Hitler , Milano, Mondadori, 1999, pp. 387-389 e 404-407. Traduzione di T. Gargiulo)