La decisione di morire di Gesù
tratto da Carlo Maria Martini, I Racconti della passione. Meditazioni, Morcelliana 1994, 83-84.
Per il catecumeno e per ciascuno di noi la Passione richiede una lunga considerazione; bisogna contemplare molto la Passione del Signore, deve avere grande parte nella conoscenza di lui. Il senso fondamentale è mutuato dal profeta Isaia “Quia ipse voluit” “poiché egli stesso volle” (nella vulgata latina) il versetto ebraico è Is 53,10 “ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori”.
La Passione non è accidentale, ma è Gesù stesso che ha accettato fino in fondo l’estrema umiliazione. Allora comincia ad acquistare un senso, perché diventa un atto umano di Gesù. Quali sono gli episodi che sottolineano il “Quia ipse voluit”?
L’unzione di Betania, dove Gesù dice:
“Ciò che ella ha fatto, l’ha fatto per ungere in anticipo il mio corpo per la sepoltura” (Mc 14,8);
Gesù va verso il mistero di degradazione umana e lo accetta consapevolmente.
Durante la cena:
“Il Figlio dell’uomo va, come è scritto di lui” (Mc 14,21);
quindi Gesù entra in un disegno che è il disegno del Padre.
Sempre durante la cena, ancora più chiaramente:
“Questo è il sangue versato per molti” (Mc 14,24).
L’Eucaristia mostra che Gesù accoglie con gioia e anticipa in sé la Passione.
E finalmente nel Getsemani, l’ultima parola che riprende il tema:
“Non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36)
Tutta la Passione va meditata riportandola, per così dire, nell’intimo del cuore del Signore che è andato incontro a questo tragico fatto volontariamente.
Voglio sottolineare, in proposito, un aspetto che è conseguente al modo in cui la Passione è presentata da Marco: Gesù è andato incontro alla morte, perché ha voluto venirci incontro fino in fondo, non ha voluto tirarsi indietro di fronte a nessuna conseguenza del suo essere con noi, affidandosi a noi completamente. Ha compiuto la missione di essere con i suoi accettando le ultime conseguenze drammatiche dell’affidarsi algi uomini con fiducia, con buona volontà, con il desiderio di aiutarli.
Dalle riflessioni sul “Quia ipse voluit”, possiamo concludere che l’unica cosa capace di dare senso alle nostre sofferenze, è di giungere anche noi ad accettarle con lui.
È facile, certe volte, per le sofferenze che riusciamo a percepire come tali (per esempio malattie non troppo gravi), e che possiamo prendere dalle mani di Dio con pazienza, offrendole per gli altri. Quando però le sofferenze diventano parte di noi stessi, quando diventano difficoltà che si identificano con il nostro essere, quando finiamo per trovarci in situazioni a cui è estremamente difficile dare un senso, allora l’accettazione diventa sempre più problematica, perché non ci sentiamo liberi e distaccati di fronte ad esse. Possiamo così dibatterci per anni in uno stato di disagio, di insofferenza, magari inconscia, di rivolta interiore verso situazioni che non siamo capaci di accettare. A volte, anzi, la cosa più pesante a cui acconsentire è proprio noi stessi.
Gesù ci insegna che, finché non giungiamo a un’accettazione cosciente e libera, le nostre sofferenze non hanno veramente senso; cominciano ad averlo quando le abbiamo in qualche maniera guardate in faccia, come lui ha fatto, e le abbiamo accettate con lui.
Questa credo sia una delle chiavi di comprensione del perché della Passione di Gesù: “Quia ipse voluit”.