La Creazione
di Marco Tibaldi
(Tratto da La sabbia e le stelle. Corso di Religione Cattolica per le Superiori, SEI, Torino 2014)
La riflessione ebraica sulla creazione nasce non come ricerca metafisica dell’origine (archè), come avviene per il pensiero greco, o come confusa ricerca della nascita degli dei stessi come avviene per le cosmogonie dei miti dell’antico oriente, bensì all’interno di un contesto relazionale: l’alleanza tra Dio e il suo popolo. I testi di Gen 1-3 sono stati scritti infatti in due periodi diversi della storia del popolo ebraico e in essi si riflettono le preoccupazioni e le domande dei due diversi periodi.
Pur avendo a che fare con la storia non sono però racconti storici nel senso moderno del termine. Per questo motivo essi sono stati definiti (dal teologo Karl Rahner) come racconti storici in senso eziologico(da aitia = causa e logos = discorso). Sono storici in quanto si riferiscono a situazioni concrete che essi devono spiegare mostrandone le cause, ma senza che lo siano tutti gli elementi della loro narrazione che spesso appartengono al genere poetico- simbolico o mitologico.
Per questo motivo secondo il biblista Francesco Rossi de Gasperis «il fatto che questa serie di racconti nella Bibbia venga premesso alla storia particolare di Israele, non gli dà tanto un valore preistorico in senso temporale, quanto il significato di un quadro, dentro il quale la storia vera e propria si svolge. Il valore di questi racconti potrebbe dirsi pro-storico o meta-storico. Essi rappresentano, non tanto e non solo dei ‘racconti delle origini’, quanto le ‘origini e il quadro permanente di tutti i racconti’.
L’intento principale dei due racconti della creazione, come anche il rimando alla creazione contenuto in molti altri passi dell’Antico Testamento (Sl 89,15; 111,7-8), è il mettere in rilievo la giustizia (tzedaqah) di Dio cioè l’aver fatto bene e bello tutto ciò che ha creato. Il primo racconto si apre solennemente con l’affermazione che “In principio Dio creò il cielo e la terra”, espressione ebraica che sta per tutto. L’espressione “in principio” (bereshit) non designa tanto un’indicazione temporale quanto ciò che si trova “in profondità”, in filigrana ad ogni realtà umana.
La creazione ha origine da un’iniziativa assolutamente gratuita di Dio che liberamente decide di dar corpo ad un’altra realtà che non sia lui stesso. La radicale diversità di questo fare creativo di Dio rispetto ad ogni altra attività umana è espressa con una parola che nell’ebraico antico designa solo ed esclusivamente l’attività di Dio (barà) «Il verbo barà qui usato appartiene alla terminologia teologica sacerdotale e si usa esclusivamente per la creazione divina. In questo stesso senso, di creazione divina senza pari, si trova anche nel Deuteroisaia (Is 40,26.28; 45,18 e passim), il quale, dal canto suo, lo avrà desunto dalla lingua cultuale degli inni (Ps 89,13.48; 104,30; 148,5). Il verbo barà viene usato anche là dove si parla della nuova creazione di JHWH (Ps 102,19; 51,12)» G. Von Rad, Teologia dell’Antico Testamento, 1, 171.
La descrizione di Gen 1 sembra attingere da altre cosmogonie poiché subito si afferma che «la terra era informe e deserta (tohuwabohu) e le tenebre ricoprivano l’abisso». Chiaramente qui ancora non si pensa in termini di creazione dal nulla (creatio ex nihilo), poiché è assente dal pensiero del redattore biblico il sistema filosofico che presuppone una riflessione sull’essere e sul nulla. Il valore permanente di questi passi consiste nel richiamo alla situazione di caos in cui si trova la realtà prima che Dio vi ponga mano, un caos in cui questa può sempre risprofondare. Su questa situazione indefinita comunque “plana” (“aleggia”) lo spirito di Dio, poiché Dio si prende cura della realtà e non la vuole lasciare in preda della confusione.
La creazione non è però il risultato della lotta tra due divinità, ma frutto della decisione di Dio che esplicita il suo barà mediante la parola. In questo silenzio compare quindi la sua parola creatrice.
Il fatto che la creazione sia opera della sua parola mostra subito il fatto che Dio intenda relazionarsi con le creature che crea, non resta muto e inaccessibile nella sua divinità, come nella concezione greca. Dio “osserva” ciò che ha fatto e lo valuta buono e bello (tov), poiché nulla di ciò che esce dalle sue mani deve essere disprezzato, quindi “chiama” imponendo nomi, ovvero interpreta conferisce un senso a ciò che ha fatto. Dio poi “separa” e “pone” dei limiti, discerne gli elementi del creato per armonizzarli senza cancellarli. Dalla confusione iniziale, emerge così attraverso l’opera divina una sempre maggiore individuazione e distinzione presupposto per lo stabilirsi di quella che è stata definita come una comunione evolutiva. L’opera creata in ogni giorno prepara e fonda quella successiva fino alla comparsa della vita animata.
In particolare si nota una sorta di demitizzazione del ruolo degli astri e degli altri elementi naturali che non sono degni di essere adorati, come in tutte le culture coeve, poiché sono creature fatte per servire. Così si dice ad esempio del sole e della luna creati «per regolare il giorno e la notte» (Gen 1,16). Agli animali e all’uomo Dio dona l’ambiente creato e pone entrambi sotto la sua benedizione (Gen 1, 22. 28). Al termine della creazione Dio sa fermarsi (shabbat) affinché l’uomo sappia mantenere, fermandosi anch’esso, il senso di quanto lui gli ha dato. Da questa descrizione si può vedere anche come la prospettiva evoluzionista sia di fatto più consona alla mentalità biblica, che è dinamica, piuttosto che quella fissista.
Il testo jahwista (Gen 2,4b-25) ha un andamento e uno stile narrativo molto diverso anche se concorda nelle affermazioni di fondo con il testo sacerdotale: tuttavia J utilizza con grande precisione e sobrietà tutta una serie di materiali simbolici che lo rendono anch’esso molto profondo. Entrambi i testi culminano nella creazione dell’uomo: nel testo sacerdotale si trova a conclusione di un lungo processo, mentre in quello jahwista viene invece subito messa in opera e il mondo sembra essere costruito attorno a lui. Notiamo che l’uomo creato da Dio viene definito un ‘essere vivente’ (nefesh hajja), titolo che viene applicato anche agli animali (Gen 2,7.19). Per alcuni a partire da questa comune appartenenza si dovrebbe sviluppare una maggiore solidarietà con il mondo animale o comunque una maggiore valorizzazione della vita in quanto tale poiché è su di essa che Dio ha riposto la sua benedizione.