Il sacrificio di Isacco
di Marco Tibaldi
(tratto da M. Tibaldi, Il codice Abramo. Personaggi in cerca di attore: Abramo e Sara, Pardes 2009, 143-151)
Con la nascita di Isacco (21,1-7) adempimento della promessa tanto attesa, la cacciata di Ismaele che poteva inficiarne l’esito e la benedizione di Abimèlech, il lettore poteva ragionevolmente considerare chiusa la narrazione del ciclo di Abramo e Sara. Inaspettatamente, invece, viene ripreso in modo unico e sconvolgente il tema della discendenza. Siamo di fronte ad un apice di tutta la narrazione, un episodio che ha inquietato e inquieta ogni lettore, ma che nello stesso tempo è fonte di nuove scoperte dell’identità di Dio e della relazione che ha proposto ad Abramo.
L’offerta del figlio della promessa (22,1-19)
La storia è forse la più conosciuta e commentata dell’intero ciclo di Abramo, però se letta astraendo dal contesto in cui è inserita non la si può comprendere. Una certa tradizione la definisce come il “sacrificio di Isacco” però, come nota giustamente Vogels, «poiché Isacco non viene sacrificato, lo si potrebbe altrettanto bene intitolare “il non sacrificio di Isacco”. La tradizione giudaica la chiama piuttosto “la legatura (aqedah) di Isacco” (v. 9). Per ciò che mi riguarda, io lo intitolo “l’offerta del figlio della promessa”, per mostrare il parallelo con il racconto dell’inizio del ciclo, che ho intitolato “l’offerta del paese” (13,2-18)» (Vogels 1999, 201).
Il testo è ben strutturato:
- Introduzione (v. 1a)
- L’ordine (vv. 1b-2)
- L’esecuzione (vv. 3-10)
- il viaggio (vv. 3-5)
- la domanda di Isacco (vv. 6-8)
- la preparazione (vv. 9-10)
- La sospensione (vv. 11-14)
- La promessa (vv. 15-18)
- Conclusione (v. 19)
Introduzione (v. 1a)
Il racconto comincia con una diretta iniziativa di Dio che «mise alla prova Abramo». Mettere alla prova ha come scopo far emergere il valore di una persona (Dt 8,2). Lo si fa perché si ritiene l’interlocutore pronto a superarla, anche se questa sembra impossibile.
Dio è qualificato come «Elohim» (Dio) con in più l’articolo «Il Dio» (vv. 3.9) per sottolineare maggiormente la sua trascendenza. La posta in gioco, infatti, è una nuova e più precisa rivelazione dell’identità di quel Dio di cui Abramo, da venticinque anni, ha cominciato a fidarsi. Per inquadrare l’episodio, è utile ricordare da quale immagine di Dio era partito Abramo all’inizio della sua vicenda: «Abramo è partito da una conoscenza astrologica, certamente imperfetta, di un Dio di cui si può disporre, dal quale si ottengono favori attraverso riti, di cui si può prevedere dove va, dove non va, guardando il corso degli astri. Quindi un Dio di cui in qualche maniera siamo sicuri, che rende sicura la nostra vita, perché su di lui possiamo contare, perché ha una regolarità simile a quella degli astri» (Martini 1985, 122). Nella sua lunga esperienza con il nuovo Dio, il Dio della chiamata, Abramo ha modificato questa percezione del divino. Jhwh gli si è rivelato come il Dio della promessa, un Dio che, nonostante i suoi continui tentennamenti, gli è rimasto fedele, facendogli vedere in tanti modi le prove della sua amicizia e benevolenza. Abramo ha accettato questo Dio e il suo modo di agire che, forse istintivamente, ha ricollocato entro gli schemi di regolarità che gli erano famigliari. Ora viene messo di fronte ad una prova in cui è chiamato invece a vivere in pienezza la novità assoluta di cui Jhwh è portatore.
Si potrebbe forse dire che è alla prova quel nuovo codice interpretativo che Dio aveva esplicitato ad Abramo e Sara nella tenda di Mamre: l’impossibile è possibile a Dio. Questo codice contraddice ogni aspettativa umana, è la messa in questione di ogni schema che pretenda di ingabbiare Dio entro le ristrette categorie umane. Abramo ne ha già constatato l’efficacia: nella vicenda con Lot, nel suo coinvolgimento nelle due guerre mondiali, nella sua discesa in Egitto e a Gerar, nell’intercessione verso Sodoma e soprattutto nella vicenda di Sara e Isacco. Ora tocca a lui dimostrare che lo ha ‘compreso’ e assimilato.
L’ordine (vv. 1b-2)
Il comando di Dio è esplicitato in un breve dialogo che richiama i temi della prima chiamata. Il lettore è coinvolto nella narrazione in quanto sa che è una prova, mentre non lo sa Abramo. Dio chiede di prendere l’unico figlio, colui che Abramo ama e di offrirlo in olocausto su un monte che lui indicherà. All’inizio Abramo era invitato a sacrificare il suo passato, la «casa di suo padre», ora è posto di fronte al sacrificio del suo futuro. Come reagirà Abramo a questo ordine? Lui che ha risposto prontamente all’appello di Dio: «Eccomi!» darà seguito a questo slancio fiducioso?
Abramo secondo me
Proviamo a dar voce ad alcune possibili reazioni di Abramo: «E no questo è impossibile, questa voce non può venire da Lui, non può chiedermi una cosa simile, proprio ora. E poi che senso ha questo discorso? Allora se le cose stanno così non è come ha sempre detto di essere. Questa proposta mi angoscia e mi getta nello sconforto. Sono troppo legato a questo figlio, lui me l’ha dato e io me lo tengo, doveva pensarci prima, se non me lo voleva dare veramente. E poi chi glielo dice a Sara? E a Isacco? Piuttosto fuggirò in un’altra terra, rinuncio alla promessa, ma non al figlio che mi ha dato!»
L’esecuzione (vv. 3-10)
Il testo non riporta alcuna reazione di Abramo (né tantomeno di Sara…). Abramo di buon mattino parte per eseguire. Il viaggio è descritto con molta cura: c’è un progressivo rallentamento del narratore sui preparativi gravati da un’atmosfera irreale, tesi a sottolineare l’importanza del momento narrato. C’è l’asino, la legna, i servi, Isacco e il viaggio. A terzo giorno, Abramo «alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo». Cosa avrà provato in quel momento così attentamente ricostruito dal narratore? Arrivati, abbandona i servi e l’asino e sale verso il monte con Isacco. È interessante l’affermazione che fa ai servi dicendo che stanno salendo sul monte per «prostrarsi», per poi fare ritorno da loro. A cosa sta pensando Abramo? «Ha forse deciso di non offrire suo figlio? Vuole forse nascondere ai suoi servi, e specialmente ad Isacco, quel che è deciso a fare ubbidendo a Dio? Tale affermazione deriva dalla convinzione profonda di Abramo che Dio non può contraddire le sue promesse? Oppure è un po’ di tutto questo, l’espressione dei sentimenti contraddittori nel cuore di Abramo?» (Vogels 1999, 205).
Infine si svolge il colloquio tra Isacco e il padre. Il testo ripete i termini «padre e figlio» con l’aggiunta di «padre mio» e «figlio mio» a sottolineare l’intimità e la forza del legame che si è instaurato tra i due: Isacco è il figlio diletto di Abramo.
Isacco pone la domanda decisiva: «dov’è l’agnello per l’olocausto?». Abramo è un po’ evasivo nella sua risposta: «Dio stesso provvederà!». Isacco tace e si incammina nuovamente verso la sommità del monte. Qui il racconto rallenta nuovamente, descrivendo con grande minuzia di particolari le azioni di Abramo: costruisce l’altare, vi colloca la legna, lega il figlio e lo depone sulla legna. Il lettore è indotto a chiedersi: cosa avrà provato Isacco in quel momento? Perché non è fuggito? Perché non si è ribellato? Perché non ha cercato di convincere il padre a non sacrificarlo? Il testo riporta la sua silenziosa obbedienza.
La sospensione del comando divino (vv. 11-14)
Abramo leva la mano e all’ultimo momento, come già nella vicenda di Agar e Ismaele, l’angelo di Dio interviene, facendo aprire gli occhi di Abramo che vide un ariete impigliato da offrire in olocausto. Per questo sul monte «il Signore provvede». Ora Dio sa qualcosa in più su Abramo: non gli ha risparmiato suo figlio. Abramo ha offerto suo figlio a Dio, l’ha rimesso nelle sue mani come aveva fatto con la terra dopo il ritorno dall’Egitto. Abramo «teme» e «rispetta» Dio: «questi due verbi che dominano il testo si troveranno sulle labbra di Mosè, quando spiegherà al popolo perché Dio ha dato loro i dieci comandamenti (Es 20,20 dove sono tradotti con «provare» e «temere»). Sono questi i due soli testi dell’Antico Testamento in cui i due verbi sono usati insieme. Il comando divino è una prova che invita a una maggiore ubbidienza. Abramo sembra aver ubbidito alla legge prima che questa fosse promulgata» (Vogels 1999, 207).
La promessa (vv. 15-18)
L’angelo del Signore interviene una seconda volta a ratificare solennemente la scelta di Abramo, impegnandosi con un giuramento: «poiché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza…». Dio si vincola con un giuramento che lui stesso si impegna a non violare «giuro per me stesso».
Conclusione (v. 19)
Abramo ritorna dai suoi servi, non viene menzionato Isacco, e da lì ritornano a Bersabea dove Abramo dimorò.
Il sacrificio del figlio come prova del nuovo codice
Il racconto della prova di Abramo si svolge all’interno di una polarità disegnata da due comandi contraddittori di Dio: «offri in olocausto il tuo unico figlio che ami» (v.2) e «non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli del male» (v.12). Siamo di fronte all’assurdità di Dio e della fede? O c’è qualcosa d’altro? Se ripensiamo all’intera vicenda di Abramo e, soprattutto, al ruolo strategico che essa gioca nell’economia della rivelazione e della Genesi, forse possiamo intravvedere alcune luci. «In principio», Dio aveva stabilito un codice di interpretazione della realtà: tutto è bello e buono, tutto è segno del suo amore paterno e l’uomo e la donna sono stati invitati ad accettare questa lettura e viverne di conseguenza, custodendo e abbellendo il creato con il loro lavoro, con l’amore con la fecondità. Il Nemico ha proposto un nuovo codice di interpretazione della realtà, esattamente contrario a quello offerto da Dio: tutto è segno della sua cattiveria, della sua rivalità e gelosia nei confronti della coppia umana. L’uomo ha dato credito a questo nuovo codice, stravolgendo così il senso di tutte le sue relazioni fondamentali: con Dio, con l’altro, con i beni. Nel riallacciare il rapporto interrotto, Dio, che rispetta le scelte dell’interlocutore anche quando sono così catastrofiche, ha assunto il codice che questi hanno scelto. Per questo motivo, le sue scelte appaiono contraddittorie, ma non c’era altra strada se non il distruggere tutto o continuare a parlare una lingua ormai incomprensibile per l’uomo.
Ciò che si qualifica quindi come l’impossibilità possibile di Dio è proprio la capacità di potersi fare nuovamente intendere dall’uomo, parlando all’interno di quella lingua (e del relativo codice) che questi ha deciso di assumere. Detto in altro modo, tutta la distanza che avvertiamo dalle scelte di Abramo o di Isacco in questo episodio segnalano drammaticamente la distanza che ci separa dal codice originario, il linguaggio della fiducia obbediente che Dio aveva posto a fondamento della sua interpretazione del creato. Non è Dio che è duro, ma è duro il codice interpretativo che l’uomo ha accettato e che Dio nella sua infinita pazienza e misericordia ha accettato di parlare.
Quello che ora vediamo nel rapporto tra Abramo e Isacco è stato letto, non a caso, come tipo del rapporto che si avrà tra Dio e Gesù. Anche loro e ben più intensamente di Abramo e Isacco accettano di contaminare il loro codice originario con il codice contraddittorio assunto dagli uomini, un codice in cui la prova dell’amore e della vita consiste, paradossalmente, nel morire.
La buona notizia
Già porsi questa domanda sembra assurdo, eppure anche questo episodio, per molti versi inquietante, cela numerose buone notizie.
La prima è che Dio mette alla prova Abramo. Essere messi alla prova significa essere considerati importanti, è come quando un allenatore fa giocare una partita importante ad un esordiente: può fallire, ma può anche dimostrare tutto il suo valore
Abramo ormai al termine della sua vicenda può recuperare tutte le figuracce fatte con Dio nel corso della sua lunga storia. Dio vuole che vinca, vuol fargli sperimentare che lui alla fine ce l’ha fatta ad accettare fino in fondo il nuovo codice.
Dio non vuole che Abramo uccida il figlio, ma vuole che Abramo uccida la paura che lui glielo toglierà. È una prova estrema che presuppone che Abramo abbia tutti gli elementi per superarla. Ha ormai fatto una lunga esperienza del modo di agire di Dio, del suo codice, per cui, facendo memoria di tutto questo, può affrontare anche questa situazione così dura.
Abramo ora sa che Dio è dalla sua parte in modo incondizionato anche quando sembra chiedere cose assurde. Come commenterà la Lettera agli Ebrei (11,17), lui ha fiducia che Dio è solo per la vita e che troverà una soluzione di vita anche all’interno di una situazione di morte.