Il legame tra la morte e la risurrezione di Gesù
in Mc 16,1-8
di Francesco Rossi de Gasperis
(tratto da È risorto non è qui! Lectio sui vangeli della risurrezione, Pardes, Bologna 2008, 16-21 passim)
Il sentimento su cui maggiormente si insiste nel testo di Marco, con verbi differenti (ekthambeô, pheugô, phobeomai, con i sostantivi tromos ed ekstasis) è lo sconcerto, la paura, la stupefazione delle donne per la scoperta della tomba vuota connessa all’annuncio dell’angelo. Esse partono per compiere sul corpo del Signore un omaggio devoto, una specie di imbalsamazione, o piuttosto un’unzione sepolcrale con oli aromatici. E mostrano fin dalla partenza una certa apprensione: “Chi ci rotolerà via il masso dall’ingresso del sepolcro?”. Entrano nella tomba e vedono un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, e hanno paura. Egli, però, dice loro: “Non abbiate paura!” (mê ekthabeisthe). Il testo non dice direttamente che le donne ebbero paura vedendo il sepolcro vuoto, ma vedendo il giovane. La paura torna ancor più forte all’annuncio che il Risorto precede i discepoli e Pietro in Galilea. Allora “esse, uscite, fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di spavento. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura”. Si noterà quante volte si dice che le donne sono prese dalla paura, che scaturisce dalla “buona notizia” della risurrezione. Sembra questa la nota più forte di questa catechesi di Marco.
È stato detto, forse un po’ superficialmente, che Marco sarebbe l’evangelista che racconta i fatti in modo più nudo, mentre gli altri ce ne darebbero già una certa elaborazione teologica. Non è affatto vero: Marco ci dà anch’egli un’interpretazione teologica degli eventi, di cui parla, molto profonda e ben presentata. La chiave della sua teologia sembra risiedere nel fatto che il modo con cui Dio si presenta agli uomini nel Cristo Gesù, in un primo tempo, provoca negli uomini stessi un disorientamento sconvolgente: è lo scandalo di “un figlio di Dio che muore su di una croce” (Mc 15,39) e di una “gloriosa vittoria crocifissa” (Mc 16,6).
Tutto questo è rinforzato qui dal silenzio delle donne: esse fuggono e non dicono niente a nessuno. Anche questa è una nota che attraversa il Secondo Vangelo, chiamato da alcuni “il vangelo del segreto messianico”. Lungo la narrazione marciana, Gesù ordina ai discepoli di non dire chi egli è. Soltanto sul Calvario, quando muore lanciando un forte grido, il centurione romano pagano che gli sta di fronte, vistolo spirare in quel modo esclama: “Veramente quest’uomo era figlio di Dio!”. La confessione di fede nell’identità messianica del crocifisso, avviene non nella sua risurrezione, ma nella sua morte. Di fronte all’annuncio della risurrezione, invece, non c’è l’esultanza che possiamo riconoscere nel racconto degli altri evangelisti (cfr. Mt 28,8), ma c’è la paura e lo sgomento delle donne. Che vuol dire ciò? Marco è l’evangelista della sproporzione dell’uomo di fronte alla salvezza di Dio. Gli esseri umani non sono mai preparati ad accogliere la venuta e la visita del Signore.
Quando credono di riconoscerla, si sbagliano. Quando il Signore viene davvero, l’uomo fugge (cfr. Gen 3,8-10). La rivelazione della salvezza di Dio non è in continuità con le dimensioni propriamente umane, non è il prodotto delle attese della coscienza dell’essere umano. La comunione con Dio, l’economia della fede non è uno sbocciare della nostra esperienza. Il Vangelo di Marco è una cura decisiva contro ogni interpretazione della fede ebraico-cristiana come un umanesimo della continuità. Esso sottolinea che la manifestazione del vero Dio, al suo primo avvento, frustra le attese dell’uomo, lo sconvolge e lo fa fuggire. È questo un tema classico nella Bibbia. Nella prima cristofania dell’Apocalisse, Gesù, il Risorto, si manifesta all’amico Giovanni, che ha riposato sul suo petto durante la cena. Il veggente dice: “Appena lo vidi, caddi a terra ai suoi piedi come morto” (Ap 1,17). Gesù, allora, posa la destra su di lui e gli dice:
“Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi”.
Quando il Vivente si rivela, anche se colui a cui si rivela è il suo più grande amico, questi cade a terra come morto. C’è una sproporzione profonda tra il divino e l’umano, soprattutto tra il modo con cui Dio si rivela e le attese dell’uomo. Le donne vanno al sepolcro per compiere sul corpo del Signore dei riti di morte. Esse sono le discepole fedeli – gli altri, gli Undici, neppure compaiono – e costituiscono una continuità tra i testimoni della passione e i testimoni del nuovo Evento. Esse, però, corrono verso la tomba senza il minimo sospetto di trovare ciò che di fatto troveranno. Vanno con una disposizione affettuosa per compiere un servizio, che suppone che il Signore sia ben morto, anzi chiuso dalla pietra pesante che chiude il sepolcro, e quindi la continuità del pensiero delle donne si svolge in continuità con la morte: Gesù è morto. Il modo con cui Dio si rivela coglie gli esseri umani impreparati. Marco sottolinea l’inerzia della mente e del cuore umano, sempre tardi nel credere alla novità di Dio.
Così sono anche tutti i discepoli che si avvicinano al Signore con amore, così è anche la sua Chiesa. Gli uomini possono organizzare dei convegni sulla futurologia, ma tutto ciò che sapranno dire sul futuro sarà ricavato dalle immagini del passato, perché nessuno di noi ha una diretta conoscenza del futuro. Dio invece che è fuori dal passato e dal futuro, è il solo che veramente fa nuove tutte le cose, “Ecco faccio una cosa nuova” (Is 43,18-19), ma gli uomini non se ne accorgono perché sono ancora fissi su ciò che è passato. Su questo punto non c’è differenza tra giovani e vecchi: siamo tutti vecchi, malati d’inerzia proprio perché la novità di Dio è inimmaginabile. Questo, però, non è un messaggio disperato o scoraggiante, perché vicino alla tomba vuota, che rappresenta tutto ciò verso cui noi possiamo andare, c’è l’angelo del Signore, che raddrizza la nostra corsa e ci indirizza verso i luoghi dove il Signore si manifesta. Basta farsi educare dalla parola del Signore: ecco l’Evangelo, il lieto annuncio.
Il luogo delle speranze e delle attese, agli uomini che cominciano da se stessi, si rivela prima o poi sempre come un sepolcro vuoto. Allora bisognerà spesso andare nella direzione opposta, guidati dalla parola del Signore, e farsi indirizzare verso il luogo esatto: “Là lo vedrete come vi ha detto”. Se vi ricordaste delle parole del Signore, trovereste dentro di voi un’indicazione che vi guiderebbe nella direzione giusta (cfr. Lc 24,6-8).
“Egli vi precede in Galilea”. Che cosa è la Galilea? Non è sempre facile determinare la geografia teologica di Marco. Indubbiamente l’indicazione “in Galilea” si combina con l’espressione: “È risorto, non è qui”. Questo è il luogo dove il Signore non c’è come morto, venire qui a imbalsamare il suo corpo non è il modo di trovarlo. Finché lo cercate qui per tributargli il vostro omaggio funebre, non troverete che il vuoto. “Andate in Galilea”, cioè nella direzione opposta a Gerusalemme, andate dall’antico centro alla periferia. “Galilea” vuol dire forse anche il luogo dove l’evangelizzazione è cominciata, dove sono nate le prime speranze, dove dovrebbe essere più facile ricordarsi delle parole che egli aveva dette. Galilea, nella geografia di Marco, è anche il luogo di confine tra Israele e le nazioni, e l’Evangelo della risurrezione, come ci dicono anche gli altri evangelisti, deve essere portato a tutte le nazioni (cfr. Mc 16,15-20). In ogni caso “Galilea” è ancora una volta là dove nessuno pensa di trovarlo, nel luogo e nel modo più lontano da dove e da come lo si cerca qui.
Da notare il ruolo particolarissimo che queste donne hanno nei confronti di Pietro e dei discepoli. Chi sono esse? Sono le donne che hanno accompagnato il loro Signore dalla Galilea fino a Gerusalemme (Mc 15,40-41). Che il primo annuncio della risurrezione venga affidato a delle donne è un fatto sconvolgente, come l’appuntamento in Galilea, perché nel giudaismo la testimonianza della donna non ha valore legale in un tribunale religioso. Dal punto di vista religioso e cultuale, nell’ebraismo, la donna non può svolgere alcun servizio liturgico. Nell’ambiente ortodosso ella deve studiare e osservare nella Torah solamente le prescrizioni rituali e legali a lei relative (puro e impuro, a proposito delle mestruazioni e del parto).
Alcuni saggi dicono che è meglio che le parole della Torah brucino nel fuoco piuttosto che cadano nelle mani di una donna (Talmud di Gerusalemme, Sotah 3,4); e che se un padre insegna la Torah a sua figlia, è come se le insegnasse il libertinaggio (Mishnah, Sotah 3,4; Talmud babilonese, Sotah 20a-22b). Quindi che la testimonianza di questo Evangelo sia affidata a delle donne è ancora un modo nuovo e sconvolgente con cui si attua l’irruzione di Dio all’interno della storia umana.