Masada: alla ricerca della verità storica
del prof.Giancarlo Biguzzi
Masada, la prima rivolta giudaica ed il suicidio di massa di Eleazar e dei suoi nel racconto di Flavio Giuseppe: alla ricerca della verità storica
La fortezza erodiana
Masada è una delle più emozionanti riscoperte storico-archeologiche del secolo ventesimo. Come risaputo, Masada è il nome di uno sperone roccioso culminante in un ampio pianoro a forma di nave che si innalza di trecento metri sulla costa sud-ovest del Mare Morto, in uno scenario arido e selvaggio. Servì da roccaforte militare fin dal secondo secolo a.C., ma fu Erode il Grande – quello che perseguitò a morte Gesù alla sua nascita – a fare di Masada una fortezza militare di prim’ordine.
La superficie pianeggiante di Masada, ampia una decina di ettari, in tutto il suo perimetro fu munita di un muro a casamatta e nei 6,5 metri che correvano tra i due muri della casamatta furono ricavati circa un centinaio tra depositi, arsenali e abitazioni: tra l’altro, lungo il lato occidentale dello stesso muro trovò posto anche una sinagoga, una delle più antiche della Palestina. Sulla spianata furono costruiti grandi magazzini in duplice serie: 6 erano lunghi 20 metri e 11 erano lunghi 27 metri. Essi circondavano da tre lati un grande stabilimento termale, inimmaginabile in pieno deserto, con muri affrescati a finto marmo e con ambienti riscaldati a diversa temperatura. E poi furono costruiti laboratori, edifici a “colombaia”, una piscina all’aperto, numerose cisterne per la raccolta delle acque piovane (12 solo sul lato nord-ovest dalla capacità media di 3.500 m3 di acqua) ecc., e due palazzi. Il primo palazzo sorse a occidente: serviva probabilmente per l’amministrazione del regno e per la rappresentanza, come dicono i grandi spazi e i raffinati mosaici pavimentali. Il secondo palazzo – più villa privata di Erode che palazzo pubblico – fu ricavato su tre terrazze a diversa altezza nella punta settentrionale della “nave” di Masada. È questa villa a tre gradini, sospesa sul deserto, con mosaici, intonaci a finto marmo e stucchi, con colonne scanalate e capitelli dorati, con un piccolo impianto balneare, con due scale scavate nella roccia che congiungevano i tre piani…, è questa villa che sorprende il turista moderno, nello scenario già di per sé unico di Masada.
All’inizio della prima rivolta giudaica scoppiata nel 66 d.C. i ribelli strapparono la fortezza ai romani e di lì tennero loro testa anche quando oramai Gerusalemme era stata distrutta e il tempio incendiato. È di questo evento bellico, universalmente famoso, che dovremo parlare, ma prima si può aggiungere che dal 74 d.C. al 111 a Masada stazionò un distacco militare romano, e che poi nella seconda rivolta giudaica (132-135 d.C.) vi si stabilirono di nuovo i ribelli giudei. In epoca bizantina, infine, Masada fu abitata (finalmente) da gente meno bellicosa, e cioè da pii monaci cristiani, come testimoniano i resti del monastero e della piccola cappella dalle decorazioni geometriche a sassolini su intonaco, che il visitatore trova a Masada tra gli altri edifici. Ora Masada è meta immancabile di chi visita Israele e la Terrasanta.
Masada, simbolo patriottico
La vicenda più drammatica di Masada ci è nota dagli scritti di uno storico giudaico di nome Giuseppe che inizialmente aveva avuto qualche ruolo nella guerra contro i romani e che poi era passato dall’altra parte. Giunto a Roma con i romani vincitori, fu storico di corte del primo principe della famiglia Flavia, l’imperatore Vespasiano, assumendo di lui anche il nome di famiglia, per cui è passato alla storia come “Giuseppe Flavio”. Ebbene, a soli 5 o 6 anni di distanza dai fatti, egli narrò la caduta di Masada nell’opera intitolata “Guerra giudaica”.
Egli narra in particolare come il generale romano Flavio Silva, ponendo l’assedio a Masada, circondò alla base la roccaforte con un muro di circonvallazione (di circa 3,6 km) e con 8 accampamenti per i circa 7.000 legionari di cui era al comando. Per avere ragione dei ribelli senza attendere di prenderli per fame, Silva dovette poi erigere una rampa d’assedio che portò gli assedianti a combattere alla stessa elevazione degli assediati. Soprattutto poi Giuseppe Flavio dice che, nella notte precedente l’assalto decisivo, i ribelli di Masada, per non cadere nella vergogna della schiavitù, furono trascinati da un appassionato discorso del loro comandante Eleazar ad incendiare le loro postazioni e a suicidarsi in massa. Era il 16 aprile del 73 d.C. (o 74). Giuseppe Flavio dice che a raccontare il tutto sopravvissero solo due donne e cinque bambini, che avevano trovato rifugio nelle condutture scavate nella roccia per la raccolta delle acque piovane.
Essendo stato l’ultimo focolaio di resistenza contro i Romani, nel secolo ventesimo Masada è divenuta un simbolo e addirittura un mito del patriottismo giudaico, in conseguenza di almeno tre fattori. I primi due sono il sorgere del movimento sionista e la costituzione del nuovo stato ebraico, e il terzo è lo scavo archeologico condotto negli anni ’60 dal grande archeologo israeliano Yigael Yadin. Egli, infatti, ha sottratto alla polvere dei secoli tutto lo scenario degli eventi e facendolo conoscere a tutti attraverso memorabili pubblicazioni anche divulgative. Tra l’altro, a Masada vengono periodicamente allestiti spettacoli di “suoni e luci”, in chiave ovviamente di ardente patriottismo.
L’attacco alla rampa d’assedio dei romani
Dopo i due attacchi romani che posero fine alle due rivolte giudaiche, un altro duplice attacco, di natura del tutto diversa, è stato lanciato contro Masada recentemente. Tra gli altri promotori dell’assalto moderno a Masada c’è anche una rivista nordamericana di archeologia: la sempre informatissima “Biblical Archaeological Review” (= BAR). A partire dal 1997, a cinque o sei riprese BAR ha parlato di Masada in pungenti articoli e nelle risposte alle lettere provocate da quegli articoli. Gli articolisti di BAR hanno sottoposto a revisione sia l’opera degli assedianti, sia la resistenza degli assediati. Cominciamo dai primi.
Nel numero di BAR del settembre-ottobre del 2001, Dan Gill, ricercatore che lavora per il “Geological Survey of Israel”, ha messo in un articolo il risultato delle sue indagini geologiche su Masada e le sue riflessioni sul testo di Giuseppe Flavio circa la rampa d’assedio innalzata dai soldati di Flavio Silva. Giuseppe Flavio diceva che per la costruzione del terrapieno i genieri romani sfruttarono un costolone naturale, l’unico che in tutto il perimetro di Masada, andava ad appoggiarsi contro le pareti a strapiombo del piccolo altopiano. Per Giuseppe Flavio il dislivello tra il pianoro di Masada e questa sella rocciosa era di 300 cubiti, qualcosa come 80 metri, per cui la rampa costruita dai romani dovrebbe essere stata un’impresa immane. Poiché essa è lunga 210 metri e poiché oggi resta al di sotto della vetta di Masada di soli 20 metri, bisognerebbe mettere in conto l’innalzamento di 60 metri dello sperone naturale, e quindi bisognerebbe mettere in conto il trasporto di più di 2 milioni di metri cubi di materiale, che comporterebbe il lavoro di migliaia di persone per molti mesi, se non addirittura per anni. Qualcuno parla di “impresa fenomenale”, di “lavoro titanico” e, addirittura, della più grande rampa d’assalto mai costruita dai romani nella lunga storia del loro impero.
Ebbene, Dan Gill ha studiato gli strati geologici di tutta l’area, le erosioni, gli smottamenti intervenuti nei millenni ecc., concludendone che la rampa d’assedio è costituita da roccia naturale per uno spessore molto più alto di quanto non si ritenesse fino ad ora, per cui l’impresa dei romani fu in ogni caso notevole, ma non proprio immane o titanica. In particolare, i calcoli e le osservazioni sul posto dicono che il materiale di riporto è, non di 60 metri, ma di circa 5 metri sopra la cresta dello sperone roccioso, e del doppio ai lati. Un’impresa dunque dieci o dodici volte più ridotta di quanto si dice di solito.
Comunque sia, fu anzitutto necessario fare ai fianchi del costolone roccioso uno steccato di contenimento, e l’ispezione sul luogo dice che i tronchi di cui ci si servì furono quelli delle tamerici che crescono nella zona desertica circostante. Poi, per il riempimento e il pareggiamento della lunga striscia in salita fin sotto la casamatta di Masada, si possono ipotizzare per ogni giorno tre turni di 800 lavoratori. Come dice il racconto di Giuseppe, si costruì poi alla sommità della rampa una piattaforma, e su di essa si costruì una torre di legno per guadagnare altri metri in altezza, e un ariete per squassare a furia di colpi il muro difensivo di Masada. Tutto evidentemente fu fatto sotto il lancio di sassi, frecce e fiaccole incendiarie degli assediati, ma un esercito esperto come quello romano seppe evidentemente come portare a termine l’impresa. In poche parole, il lavoro di costruzione del terrapieno poté durare da una settimana a un mese al massimo, e il risultato non fu affatto la rampa d’assedio più grande della storia romana.
Prima ancora che l’impresa “titanica” dei romani assedianti, la nostra rivista di archeologia biblica, ma non solo essa, ha ridimensionato anche il mito riguardante l’altro fronte di battaglia di Masada, quello degli assediati.
L’attacco al suicidio di massa
Lo scavo archeologico di Yigael Yadin aveva solo sostanzialmente confermato la descrizione di Masada fatta da Giuseppe Flavio, ma non per esempio ciò che egli scrive circa i due “palazzi” e la loro collocazione, dal momento che Giuseppe sembra parlare di un solo palazzo e sembra mettere insieme in quel suo unico palazzo le caratteristiche distinte dei due reali palazzi messi in luce dagli archeologi. Il sentiero (fin dall’antichità detto “del serpente” per la sua forma a zig-zag) che s’inerpicava su per il lato orientale di Masada, non era così pericoloso come Giuseppe vuol far credere, né le colonne che adornavano gli edifici erano là dove Giuseppe le colloca, né erano tutte d’un pezzo ma fatte di rocchi sovrapposti, ecc. Lungo il muro a casamatta di Masada superiore sono state individuate solo 27 delle 38 torri di cui Giuseppe parla, e a Masada inferiore Giuseppe colloca torri ed edifici di cui non si è trovata traccia. In conseguenza di tutte queste imprecisioni, sorsero dubbi anche sull’affidabilità del racconto di Giuseppe circa la caduta di Masada.
Tra i revisionisti si possono ricordare Trude Weiss-Rosmarin, una studiosa ebrea nata in Germania ma poi trasferitasi negli Stati Uniti, la quale nel 1981 su di una rivista da lei stessa pubblicata, il Jewish Spectator, sollevò difficoltà sia circa il discorso di Eleazar ai suoi compagni d’armi (chi ne aveva riferito il contenuto a Giuseppe?), sia circa il fatto stesso del suicidio. Invece che consegnare Masada ai romani con un inutile suicidio, per Trude Weiss i rivoltosi avrebbero piuttosto sfruttato la posizione favorevole per infliggere le perdite più gravi possibile agli assedianti, per poi morire con molti di loro, un po’ come aveva fatto Sansone che aveva coinvolto nella propria morte i Filistei secondo il famoso grido: «Muoia Sansone con tutti i Filistei!».
In secondo luogo si può ricordare Shaye Cohen, un altro studioso ebreo, il quale nel 1982 presentò il racconto di Giuseppe come zeppo di abbellimenti, di esagerazioni e di tratti plagiati dai racconti di suicidi di massa – almeno 16 – che si riscontrano nella letteratura ellenistica contemporanea a Giuseppe. Dopotutto le due donne e i cinque bambini che Giuseppe cita come propria fonte non erano stati testimoni dell’ultima sera e dell’ultima notte, avendo dovuto nascondersi nei corridoi di accesso alle cisterne per sottrarsi alla spada dei mariti o del padre. Per questo Cohen si sente di poter smentire Giuseppe proprio sui punti più qualificanti del suo racconto: «Silva non ordinò la ritirata l’ultima sera quando era ormai entrato in Masada, Eleazar non ebbe la possibilità per i suoi due spezzoni di elogio del suicidio, e i 960 assediati non ebbero affatto la comodità di tutt’una lunga notte per uccidere prima le proprie mogli e i propri bambini, e poi sé stessi».
Secondo Cohen, a Masada dunque accadde quello che in quella guerra era già capitato a Iotapata, Gamla, Gerusalemme, Erodio, e così via. Certamente qualcuno uccise per pietà i propri famigliari e qualcuno commise suicidio, e da tutto questo Giuseppe ricavò la sua drammatica ma esagerata narrazione. Ma poi molti morirono combattendo, qualcuno riuscì forse a fuggire, e qualcuno fu fatto prigioniero. Tra l’altro, un altro articolo di BAR (luglio-agosto 2001), documenta l’ipotesi secondo cui la costruzione del Colosseo sarebbe stata finanziata con il bottino della guerra giudaica del 66-70. Si potrebbe aggiungere il Colosseo fu tirato su, anche con il lavoro forzato dei prigionieri di guerra. Cohen comunque conclude dicendo che gli assediati non erano in grado di opporre alcuna seria resistenza ai romani, non avendo né l’equipaggiamento (non avevano nemmeno una balista o una catapulta!) né l’esperienza richiesta per far fronte a veterani stagionati come quelli di Silva.
Si può infine citare di nuovo appunto la “Biblical Archaeological Review” che in articolo di Joseph Zias (BAR, novembre-dicembre 1998), antropologo israeliano e collaboratore di Yigael Yadin nello scavo di Masada, ha messo in questione ciò che riguarda i resti mortali ritrovati a Masada. Yadin disse di aver trovato parte delle ossa di un uomo e di un bambino e la capigliatura di una donna nella terrazza inferiore della villa settentrionale, e poi i resti di altre 28 persone in una grotta nel fianco sud-est di Masada. Egli presentò questi reperti come i resti degli estremi difensori di Masada tanto che, deposte in tre bare coperte dalla bandiera con la stella di David, queste ossa umane ricevettero onorevole sepoltura ai piedi della rampa d’assedio romana, in una cerimonia di stato che ebbe luogo il 7 luglio 1969. Ma, secondo Joseph Zias, le ossa sepolte come ossa di giudei assediati sono più probabilmente ossa di romani che dopo il 70 erano a Masada per presidiarla. Anzitutto Zias fa notare che le ossa della grotta erano miste a ossa di porco secondo l’uso romano, e in secondo luogo si rifiuta di identificare i tre morti del palazzo settentrionale con i tre ultimi suicidi di Masada – una famigliola –, come voleva la ricostruzione di Yadin proposta in una pubblicazione divulgativa. In particolare – dice Zias – non c’è sul posto la spada del suicidio e d’altra parte i due scheletri maschili sarebbero tutti e due di adulti, mentre la capigliatura della donna è troppo ben conservata per essere del primo secolo d.C. Dopotutto, in 40 anni di occupazione romana dal 74 al 111 d.C., come potevano restare là, indisturbati se non da qualche animale carnivoro in cerca di cibo, i corpi degli ultimi tre suicidi di Masada?
In attesa di un ulteriore capovolgimento
Così dunque l’attacco giornalistico-scientifico sia alla rampa d’assedio dei romani sia al mito del suicidio di massa dei rivoltosi giudei, ha provato a ridimensionare la straordinarietà o l’aura epica delle imprese e degli eventi di Masada.
A riguardo di tutto questo revisionismo, c’è da dire che le prove portate sono, non solo di diversa natura, ma anche di diverso valore. Altro infatti è un sondaggio geologico che costituisce qualcosa di oggettivo, altro è invece la valutazione, inevitabilmente soggettiva, dell’attendibilità di un testo letterario (per esempio dei testi del discorso di Eleazaro e del suicidio di massa), e altro ancora è l’assenza di reperti – che invece ci si aspettava di trovare – in uno scavo archeologico (per esempio le introvabili ossa dei 960 ribelli di Masada): si sa infatti che ogni argomento tratto dal silenzio o dall’assenza, è sempre precario. In secondo luogo, è ben vero che – come scrive Zias – «molte volte si vuole credere piuttosto che conoscere», ma è vero anche che alcune argomentazioni, a favore del non-suicidio, non sono esenti da difficoltà. Per esempio, – come scrive un lettore di BAR in una lettera – poteva Giuseppe Flavio, a pochi anni dai fatti, far circolare l’invenzione del suicidio di massa se a Roma e in Palestina si sapeva che non c’era stato alcun suicidio di massa? Ed è poi pensabile che lo stesso Giuseppe crei dal nulla il mito glorioso dei suicidi di Masada, lui che nel suo scritto ad ogni passo dipinge i ribelli a Roma come il folle partito della guerra?
I dubbi sull’attendibilità di Giuseppe Flavio, comunque, restano. È risaputo e dimostrabile, infatti, che gli storici antichi prestavano volentieri le proprie idee ai propri eroi nei discorsi che mettevano sulle loro labbra. Da parte sua, poi, Flavio Silva sapeva bene che gli storici contemporanei si permettevano di abbellire i fatti e di esagerarli. Se anche lesse le pagine di Giuseppe Flavio, di fronte alle esagerazioni che esse potevano contenere il generale di Masada non si deve essere troppo preoccupato di esigere precisazioni e rettifiche.
Bibliografia
- S. Mason, «How Reliable is Josephus?», in BAR 23 (1997, n. 5), 62-63
- S. Cohen, «Masada, Literary Tradition, Archaeological Remains, and the Credibility of Josephus», in Journal of Jewish Studies (Essays in honour of Yigael Yadin) 33 (1982), 385-405
- L.S. Tauber – S. Mason, «Did Josephus Make Up the Mass Suicide at Masada?», in BAR 24 (1998, n. 1), 13-14
- J. Zias, «Whose Bones? Were They Really Jewish Defenders? Did Yadin Deliberately Obfuscate?», in BAR 24 (1998, n. 6) 39-45
- D. Gill, «It’s a Natural. Masada Ramp Was Not a Roman Engineering Miracle», in BAR 27 (2001, n. 4), 22-31
fonte: http://www.gliscritti.it/approf/2007/papers/masada.htm